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Il salvataggio della famiglia Perugia da parte di Mons. Igino Roscetti

Il salvataggio della famiglia Perugia da parte di Mons. Igino Roscetti

Mercoledì 19 giugno 2019, ore 17

Biblioteca Comunale, via della Repubblica 26, Subiaco

 Comunità Ebraica di Roma      –       Comune di Subiaco

Chi salva una vita, salva un mondo intero (Talmud Sanhedrin 37a)

Il salvataggio della famiglia Perugia da parte di Mons. Igino Roscetti

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Saluti

Francesco Pelliccia (Sindaco di Subiaco)

Mons. Mauro Parmeggiani (Vescovo di Tivoli e di Palestrina)

Rav Riccardo Di Segni (Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma)

Ruth Dureghello (Presidente della Comunità Ebraica di Roma)

 

Interventi

Tommaso Dell’Era (Università degli Studi della Tuscia): il contesto storico

Fabrizio Lollobrigida (giornalista): Mons. Igino Roscetti

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Le testimonianze:

Lettura di alcuni passi tratti dal manoscritto di Mons. Igino Roscetti

Laura Perugia (salvata da Mons. Igino Roscetti):

testimonianza riportata da Silvia Haia Antonucci

(Responsabile dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma “Giancarlo Spizzichino”)

Sandra Perugia (salvata da Mons. Igino Roscetti)

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Modera

Claudio Procaccia (Direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali

della Comunità Ebraica di Roma)

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Saranno presenti Elena e Anna Fedeli (nipoti di Mons. Igino Roscetti)

 

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E’ il libro di Ester la guida per la XXX giornata del dialogo ebraico cristiano

E’ il libro di Ester la guida per la XXX giornata del dialogo ebraico cristiano

di Angela Ambrogetti  (ACI Stampa).-

E’ stato il libro di Ester la guida per la riflessione della giornata del dialogo ebraico cristiano che si è celebrato oggi 17 gennaio alla vigila dell’apertura della Settimana di Preghiera per l’ Unità dei cristiani.

Quella del 2019 è la XXX Giornata e come dice il vescovo Ambrogio Spreafico Presidente Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo CEI è molto positivo “poter rilevare come in questi ultimi anni si sia andato rafforzando il comune impegno tra cattolici ed ebrei nel nostro paese”.

Molti gli incontri tra l’Ufficio CEI per l’ecumenismo e il dialogo inter religioso e l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e la Comunità Ebraica di Roma, nelle persone del Rabbino Capo Riccardo Di Segni, della Presidente della Comunità Ruth Dureghello e della Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche, Noemi Di Segni. L’idea di fondo è individuare un campo di collaborazione che possa “aiutare da parte cattolica la conoscenza dell’ebraismo come realtà vivente e non solo come memoria di fatti del passato; si è cercato di porre l’attenzione anche su alcuni documenti della Chiesa cattolica, che hanno certamente segnato profondamente la comprensione dell’ebraismo e la teologia della Chiesa stessa, ma che sono rimasti a volte ristretti a piccoli gruppi”.

Per la giornata è stato predisposto un sussidio con due note sul libro di Ester, una del Rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e una di  Don Dioniso Candido Responsabile dell’ apostolato biblico dell’ ufficio catechistico Nazionale CEI.

Rav Di Segni ricorda la storia di Ester come origine della festa di Purìmcon la vicenda della Regina Ester che salva il suo popolo, Israele. Nella celebrazione ancora oggi obbligo di lettura del rotolo di Ester, la sera d’inizio e la mattina dopo; scambio di doni alimentari; offerte ai poveri; ricco pasto festivo, con obbligo specifico di indulgere nel vino e bambini che si mascherano. “La storia del Purìm rappresenta nelle vicende ebraiche millenarie il prototipo di un clichè drammatico, quello di un popolo disperso nel mondo, sottoposto al capriccio dei governi, che da un momento all’altro rischia di essere massacrato; il lieto fine della storia (raro nelle vicende reali) dà un po’ di speranza, e tutto questo spiega la radicalità del coinvolgimento e dell’identificazione popolare intorno a questo ricordo, in apparenza tutto allegro, in sostanza dolce-amaro”.

Da parte cattolica Don Candido spiega che “il libro di Ester suggerisce di non accontentarsi della superficie degli eventi, ma di imparare ad andare oltre, fino a scorgere la creatività d’amore del Dio provvidente. Accorda inoltre ai personaggi concreti un ruolo decisivo: i benefici divini sono cioè strettamente legati alla responsabilità umana. Il Dio biblico non abbandona i suoi che scelgono con coraggio la giustizia e la vita: l’opera salvifica divina si coniuga con la collaborazione da parte dell’uomo. Qui il silenzio divino sollecita ed amplifica la voce umana: Dio arretra per lasciare che emergano le scelte umane di fronte alle variabili della storia”.

Una occasione per riprendere in mano ance il documento del 1985 della Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo: “Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei nella predicazione e nella catechesi della Chiesa cattolica” o il testo della Pontificia Commissione Biblica “Il popolo Ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”.

Il sussidio per la XXX Giornata di approfondimento del dialogo tra cattolici ed ebrei  serve per “aiutare tutti i fedeli delle nostre comunità a riscoprire il legame con l’ebraismo nella sua storia e nel suo presente in mezzo a noi” conclude Spreafico.

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Riccardo Di Segni: «Migrazione fuori controllo. Vittorio Emanuele III? Era meglio dove stava prima»

Riccardo Di Segni: «Migrazione fuori controllo. Vittorio Emanuele III? Era meglio dove stava prima»

Il rabbino capo di Roma: «Temo nuove ondate d’intolleranza. Mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare? Devo rispondere due no»

Corriere della Sera

 di Aldo Cazzullo

Rabbino Di Segni, lei da 17 anni è il capo religioso della più antica comunità ebraica della diaspora, quella di Roma. Com’era il ghetto quando lei era piccolo, subito dopo la guerra?
«Pieno di bambini. Papà era pediatra. Volevamo ricominciare, ma la ferita della Shoah era terribile. La razzia del 16 ottobre 1943 fu opera dei tedeschi. Ma poi furono gli italiani a far deportare altri mille ebrei».

I suoi come si salvarono?
«Molti si sentivano al sicuro dopo aver versato l’oro ai nazisti. Mio padre Mosè ebbe una perquisizione in casa. Chiamò da un telefono pubblico un amico giornalista che lo mise in allerta. Non tornò nel ghetto, scappò con mia madre Pina a Serripola, una frazione di Sanseverino Marche».

Anche sua madre era figlia di un rabbino.
«Nonno era il rabbino di Ruse, la città di Elias Canetti, sul Danubio. Fu salvato da re Boris, che disse a Hitler: gli ebrei bulgari non si toccano. Morì avvelenato, forse per mano nazista. Resistere, però, era possibile».

Cosa pensa del ritorno delle spoglie di Vittorio Emanuele III?
«Era meglio se rimaneva dove stava».

E della beatificazione di Pio XII?
«Ho studiato la sua storia, e devo ribadire un giudizio severo. Non fece nulla per impedire la deportazione. È vero che poi offrì rifugio a molti perseguitati».

Suo padre fu partigiano.
«Medaglia d’argento. Combatté la battaglia più dura il 24 marzo 1944, mentre suo cugino Armando veniva ucciso alle Fosse Ardeatine. Gli altri cugini sono morti ad Auschwitz. Mamma era nascosta in un granaio con mio fratello Elio e mia sorella Frida. Venne il rastrellamento fascista, il prete andò ad avvisare la banda di mio padre, che arrivò appena in tempo. I fascisti scapparono».

Perché gli ebrei sono il popolo più antico al mondo? Perché sono stati perseguitati ovunque e da tutti?
«È una scelta del Padreterno: ci ha esposti a ogni rischio, e continua a farlo; e nello stesso tempo ha un impegno con noi per la nostra sopravvivenza. Non lo dico io, lo dicono i profeti».

Siete il popolo eletto?
«Non nel senso di una presunta superiorità. L’elezione è una sfida. È una continua messa alla prova. Non ti è consentito quel che è permesso a una persona normale. Sei chiamato a rispettare una disciplina particolare, con tutti i rischi che questo comporta».

Marx, Freud, Einstein: qual è il segreto dell’intelligenza degli ebrei?
«Se ti considerano diverso, finirai per comportarti in modo diverso, anche se non sei religioso; e l’evoluzione nasce dalla differenza. Siamo un popolo ricco di eccessi, in positivo e in negativo: ci sono ebrei molto intelligenti, e altri che non lo sono».

È vero che san Francesco aveva origini ebraiche?
«Un libro lo afferma, ma non ne sono affatto sicuro. Senza fare paragoni, era ebreo don Lorenzo Milani».

Lei ha detto: «Abbiamo sempre inventato cose che ci hanno portato via». Cosa intende?
«Le rivoluzioni del primo ‘900 sono state fatte da ebrei, poi eliminati scientificamente uno per uno, da Trotzky in giù. In Italia abbiamo avuto Modigliani e Treves, che fece il duello col Duce. Lo diceva già Malaparte: un ebreo può fare la rivoluzione, non comandare».

Lei ha biasimato l’Italia per aver votato contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele. Perché? 
«Perché è il riflesso della tipica posizione cristiana e più ancora musulmana per cui gli ebrei possono essere sottomessi o tollerati, mai sovrani, neppure a casa propria».

Gerusalemme è anche la casa dei palestinesi.
«Me ne rendo conto. Ma Gerusalemme capitale non è un’invenzione di Trump. È una questione politica che risale al 1948. È una questione religiosa millenaria. Non dimentichi che i cristiani hanno fatto le crociate, e non per riportare gli ebrei a Gerusalemme: dove arrivavano i crociati, distruggevano le comunità ebraiche».

Cosa pensa della politica di Netanyahu? 
«Non parlo di politica. Né israeliana, né italiana».

Esiste ancora l’antisemitismo in Italia?
«C’è sempre stato, c’è, e ogni tanto riemerge in forme diverse. C’è l’idea religiosa che il popolo ebraico abbia esaurito la sua funzione, e debba vagare ramingo e disperso tra i popoli come punizione per non aver accolto la verità. E ci sono le curve degli stadi che deformano simboli per trasformarli in offese, senza rendersene conto; oppure rendendosene conto benissimo. Colpisce che non ci sia più inibizione a dichiarare simpatie fasciste».

C’è anche un antisemitismo di sinistra?
«Certo che c’è».

Cosa pensa di Lotito?
«Scusi, ma lei e io ci siamo incontrati qui nella sinagoga di Roma, in una splendida mattina di sole, per parlare di Lotito?».

E di Papa Francesco?
«È un Papa che sa ascoltare. Gli ho chiesto di non citare più i farisei come paradigma negativo, visto che l’ebraismo rabbinico deriva da loro; e l’ha fatto. Gli ho chiesto di non cadere nel marcionismo, e mi pare ci stia attento».

Cos’è il marcionismo?
«L’idea — cara all’eretico Marcione e tuttora diffusa tra i laici che di religione sanno poco, come Eugenio Scalfari — che esista un Dio dell’Antico Testamento, severo e vendicativo, e un Dio del Nuovo, buono e amorevole. Ma Dio è uno solo. Ed è insieme il Dio dell’amore e il Dio della giustizia. Il Dio che perdona, e il Dio degli eserciti».

Primo Levi criticò Israele dopo Sabra e Shatila.
«È vero, anche se la colpa fu di mancata vigilanza, non furono israeliani a massacrare i palestinesi. E comunque Se non ora quando è un libro molto sionista. Persino troppo, là dove si compiace per gli ebrei in armi».

Lei non ha punti di disaccordo con Papa Francesco?
«Ne ho molti. Ad esempio il Papa fa passare la domenica come un’invenzione cristiana; ma se voi avete la domenica, è perché noi abbiamo il sabato. Quando Francesco è venuto qui in sinagoga voleva discutere di teologia. Gli ho risposto di no: di teologia ognuno ha la sua, e non la cambia; discutiamo di altro».

Di migranti?
«Sui migranti noi ebrei siamo lacerati. La fuga, l’esilio, l’accoglienza fanno parte della nostra storia e della nostra natura. Ma mi chiedo: tutti i musulmani che arrivano qui intendono rispettare i nostri diritti e valori? E lo Stato italiano ha la forza di farli rispettare?».

Si risponda.
«Purtroppo devo rispondere due no. Per questo sono preoccupato. L’Europa è nata dopo Auschwitz; non vorrei che finisse con un’altra Auschwitz. Non so chi sarebbero stavolta le vittime. So che la migrazione incontrollata può provocare una reazione di intolleranza; ci andremmo di mezzo anche noi, e forse per primi».

L’arrivo di migliaia di migranti musulmani è un problema per gli ebrei?
«Non solo per gli ebrei; per tutti».

Lei è andato alla moschea di Roma, ma l’imam non è venuto in sinagoga. Come mai?
«Il rapporto con l’Islam è molto complesso. Ci stiamo lavorando. Al corteo del mese scorso a Milano si sono sentiti slogan in arabo che inneggiavano a Khaybar, la strage di ebrei fatta da Maometto. Ho ricevuto lettere private di scuse da parte di organizzazioni islamiche; non ho sentito parole pubbliche».

Cos’è per lei il Giorno della Memoria?
«Una data necessaria. Con rischi da evitare: l’assuefazione, la noia, e alla lunga il rigetto di chi dice: “Non ne posso più di questi che stanno sempre a piangere”».

Chi è per lei Gesù?
«Innanzitutto, un ebreo. Conosceva la tradizione ebraica, ha predicato insegnamenti morali in gran parte condivisi dalla tradizione, in parte “eterodossi”. Ma per voi è il Messia, il figlio di Dio; per noi non lo è».

Un falso Messia?
«Non voglio usare questa espressione. Per noi non è il Messia».

Cosa pensa delle leggi sulle unioni civili e sul fine vita?
«Lo Stato fa le leggi che ritiene; i credenti fanno quel che ritengono, spesso dopo averci chiesto consiglio. La sedazione profonda non è un problema; ma l’idratazione e la nutrizione non vanno interrotte. Mai».

Voi rabbini potete sposarvi.
«Non possiamo; dobbiamo. Nella nostra visione, un uomo che non si sposa non è pienamente realizzato».

Come immagina l’aldilà?
«Non è al centro delle mie preoccupazioni. Noi crediamo che la vita non si fermi qui, in questo mondo, in questa dimensione. Per il resto abbiamo poche informazioni, ma confuse».

Noi cristiani crediamo alla resurrezione della carne.
«È un concetto ebraico, l’avete preso da noi. Ma non abbiamo un sistema ultraterreno definito come il vostro, con il Paradiso, il Purgatorio, l’Inferno. C’è l’idea della punizione e del premio; del resto discutiamo da millenni. Voi pensate gli ebrei come un monolito; ma da sempre non facciamo altro che litigare».

Dunque la lobby ebraica non esiste?
«In Italia “lobby” ha una connotazione negativa, in America no: è un gruppo di espressione che difende valori e interessi. E noi abbiamo valori e interessi da difendere».

20 gennaio 2018 (modifica il 21 gennaio 2018 | 10:37)

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Fonte: Corriere della Sera.

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GERUSALEMME E LA CENTRALITÀ EBRAICA

GERUSALEMME E LA CENTRALITÀ EBRAICA

di RICCARDO DI SEGNI, Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma

La Stampa, 9 dicembre 2017

 

Caro Direttore,

martedì gli ebrei di tutto il mondo festeggeranno la festa di Chanukkà, accendendo ogni sera dei lumi per otto giorni.

All’origine di questa festa c’è una storia militare: la rivolta degli ebrei ribelli contro il dominio dei greci seleucidi.

La vittoria portò alla costituzione di un regno ebraico indipendente in Giudea, con capitale Gerusalemme, il cui Tempio fu ripulito dalle contaminazioni ellenistiche. Tutto questo avveniva intorno al 165 prima dell’era cristiana.

La tradizione successiva ha cercato di concentrare l’attenzione più sul miracolo religioso della restaurazione che sull’evento militare; questa festa comunque rimane uno dei numerosi documenti della continua e intensa attenzione ebraica su Gerusalemme.

II nome della città evoca la pace; è stata invece perenne centro di scontri tra popoli e culture. Gli ebrei, conquistatori di quella città ai tempi del re David (nel X secolo prima dell’era cristiana ne fece la capitale del suo regno), esiliati, ritornati, per poco tempo sovrani indipendenti, poi di nuovo sconfitti ed esiliati, non hanno mai rinunciato a quella città, non solo come capitale dello spirito, ma come capitale reale.

Anche quando le sanguinose guerre per il dominio di Gerusalemme avevano altri protagonisti (ad esempio cristiani, crociati e musulmani) gli ebrei erano presenti e marginali, vittime di massacri da parte dei belligeranti. II pensiero sulla città comunque non veniva mai meno, sostenuto da riti, preghiere e date di calendario liturgico.

Con queste premesse, il putiferio scatenato dalle dichiarazioni del presidente Trump su Gerusalemme non può essere spiegato solo in termini politici. La prospettiva storica e religiosa è indispensabile per capire la vera entità della questione e i meccanismi profondi e ancestrali che si attivano. Da una parte la centralità ebraica, di cui si è detto. Dall’altra l’opposizione reale e dura delle altre religioni, al di là del politically correct.

Per i musulmani, in termini teologici e politici, per loro difficilmente distinguibili, la sovranità e l’indipendenza ebraica, tanto più su Gerusalemme, sono semplicemente intollerabili, gli ebrei al massimo possono essere sottomessi.

E in termini cristiani pesa ancora l’idea dell’esilio ebraico e della perdita della terra e di Gerusalemme come punizione per il mancato riconoscimento della verità cristiana. Questa idea è presente fin dalle origini e rimane ufficiale fino al XX secolo. In altri termini anche il cristianesimo, con tutte le sue recenti aperture all’ebraismo, non ha del tutto elaborato l’idea della sovranità ebraica, dello Stato di Israele (si parla sempre di «terra santa») e tanto più di Gerusalemme capitale ebraica.

Se la reazione alla dichiarazione di Trump è stata così forte e persino viscerale, ciascuno, anche non credente, si interroghi sulle sue motivazioni più o meno inconsce, sull’educazione ricevuta, sulla riluttanza a riconoscere al popolo ebraico i diritti che per altri sarebbero scontati.

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Un convegno che ci riporta indietro di secoli. Polemiche per un titolo inaccettabile: “Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria”.

Un convegno che ci riporta indietro di secoli. Polemiche per un titolo inaccettabile: “Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria”.

Incontro a Venezia sulla religione ebraica

inchiesta di Giulio Meotti sul Foglio


Dall’11 al 16 settembre a Venezia, l’Associazione biblica italiana organizza un convegno con studiosi italiani ed europei che sembra uscito dalle ombre del primo Novecento. “Israele popolo di un Dio geloso: coerenze e ambiguità di una religione elitaria”. Niente meno. L’Associazione, riconosciuta dalla Cei, di cui fanno parte esponenti del clero cattolico e protestante, 800 studiosi e professori di cultura laica e che il Papa ha salutato a Roma lo scorso settembre, discuterà delle “radici di una religione che nella sua strutturazione può dare adito a manifestazioni ritenute degeneranti”. Degeneranti? L’ebraismo avrebbe come conseguenze spesso il “fondamentalismo” e “l’ assolutismo”. “Il pensarsi come popolo appartenente in modo elitario a una divinità unica ha determinato un senso di superiorità della propria religione”, recita il programma veneziano.

Non si è fatta attendere la risposta, durissima, dei rabbini italiani. Giuseppe Laras, già rabbino capo di Milano e presidente emerito dell’Assemblea rabbinica italiana, ha scritto ai vertici dell’Associazione biblica, denunciandone le posizioni, ma senza ottenere risposta. “Sono, ed è un eufemismo, molto indignato e amareggiato!”, scrive Laras nella lettera che il Foglio anticipa qui. “Certamente, indipendentemente da tutto, ivi incluse le possibili future scuse, ripensamenti e ritrattazioni, emergono lampanti alcuni dati inquietanti, che molti di noi avvertono nell’aria da non poco tempo e su cui vi dovrebbe essere da parte cattolica profonda introspezione: un sentore carsico di risentimento, insofferenza e fastidio da parte cristiana nei confronti dell’ebraismo; una sfiducia sostanziale nella Bibbia e un ridimensionamento conseguente delle radici bibliche ebraiche del cristianesimo; un abbraccio con l’islam che è tanto più forte quanto più si è critici da parte cristiana verso l’ebraismo, inclusa ora perfino la Bibbia e la teologia biblica”.
Secondo Laras, “questo programma dell’Associazione biblica italiana è la sconfitta dei presupposti e dei contenuti del dialogo ebraico-cristiano, ridotto ahimè da tempo a fuffa e aria fritta. Personalmente registro con dolore che uomini come Martini e il loro Magistero in relazione a Israele in seno alla chiesa siano stati evidentemente una meteora non recepita, checché tanto se ne dica”. Questa teologia ha conseguenze politiche, dice Laras: “La causa dell’instabilità del medio oriente e dunque del mondo sarebbe Israele (colpa politica); la causa remota del fondamentalismo e dell’assolutismo dei monoteismi sarebbe la Torah, con ricadute persino sul povero islam (colpa archetipica, simbolica, etica e religiosa). Ergo siamo esecrabili, abbandonabili e sacrificabili. Questo permetterebbe un’ipotesi di pacificazione tra cristianesimo e islam e l’individuazione del comune problema, ossia noi. E stavolta si trova un patrigno nobile nella Bibbia e un araldo proprio nei biblisti”.
D’accordo con Laras i principali rabbini italiani, a cominciare da Roberto Della Rocca, responsabile dell’educazione nelle comunità ebraiche italiane. “Non voglio fare il processo alle intenzioni”, dice al Foglio il rabbino capo di Milano, Alfonso Arbib. “Ma o è uno scivolone o è qualcosa di preoccupante. Sono argomentazioni teologiche usate nel passato come arma antiebraica il Dio vendicativo degli ebrei, il Dio della giustizia contrapposto al Dio dell’amore, usate come propaganda antiebraica. Quando si usano argomentazioni del genere a noi si alzano le antenne. La chiesa cattolica nel dialogo ebraico-cristiano ha superato queste argomentazioni. Sembra che ora vengano riprese. L’idea dell’ebraismo elitario che si sente superiore è stata usata nel passato in maniera preoccupante. E’ chiaramente il sospetto che si voglia avere una ricaduta sull’attualità, su Israele”.
D’accordo con Arbib il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che al Foglio dice: “O è una cosa fatta con piena coscienza e quindi gravissima, oppure non si rendono conto. Non è solo una analisi teologica, biblica, ma un discorso che si presta a essere contestualizzato al medio oriente, con implicazioni micidiali in politica”. Alla stesura della lettera di protesta dei rabbini ha partecipato anche un laico, David Meghnagi, docente a Roma Tre, esperto di didattica della Shoah e membro dell’Unione comunità ebraiche italiane. “Sono convinto che il convegno sia l’indice che dentro la chiesa, fra gli intellettuali e gli studiosi, gli elementi di marcionismo che l’hanno corrotta non sono stati superati”, dice Meghnagi al Foglio. “E sono presenti anche nella cultura laica che legge la Bibbia. Lo si vede negli interventi di Eugenio Scalfari su Repubblica, la contrapposizione fra il Dio veterotestamentario e quello del Nuovo Testamento. Nel 1990, alla prima giornata dell’amicizia fra ebrei e cristiani della Cei, mentre piovevano i missili su Tel Aviv da parte dell’Iraq, mi si avvicina un vescovo e mi dice: Lo sa quanta fatica noi cristiani facciamo per nobilitare il Vecchio Testamento?’. Il linguaggio cristiano rispetto agli ebrei presenta diverse patologie, compresa la valutazione degli ebrei come popolo decaduto, di cui si eredita la primogenitura. Solo dopo la Shoah c’è stata una rivalutazione. Nella cultura più ampia di molti laici e democratici ci sono pregiudizi che arrivano da questa visione”.
Ecco allora che in tante, troppe guerre, Israele finisce per diventare “il nuovo Erode” e i palestinesi “il nuovo Gesù”. “Siccome non viviamo nel vuoto, la scelta di privilegiare questa riflessione si incontra con una teologia palestinese e di matrice cristiano-orientale, che trova ascolto nei movimenti pacifisti e terzomondisti, che tende a vedere l’attuale contrapposizione in medio oriente come la riedizione su più vasta scala della violenza del Dio biblico, l’ebraismo della carne contrapposto allo spirito, i valori della terra contro quelli dello spirito”, conclude Meghnagi. “Vorrei citare un articolo di Gianni Baget Bozzo uscito sul Manifesto sulla guerra di Israele come violenza biblica, o quello di Scalfari su Repubblica che parlò del Dio della vendetta. Lo si vede anche nelle vignette di Forattini. E’ un elemento che è passato nella cultura attraverso la demonizzazione del sionismo, la falsa innocenza della diaspora rispetto allo stato-nazione ebraico da esecrare”.


Giulio Meotti sul FOGLIO

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Mosè e la Torà

Mosè e la Torà

Le ultime righe della Torà

di Rav RICCARDO DI SEGNI

Mosè, portatore della parola di vita eterna trasmessa all’umanità.


Le ultime righe della Torà, raccontano la morte di Mosè e ne tessono le lodi: “non è ancora sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore aveva conosciuto faccia a faccia; per tutti i segni e i prodigi che il Signore gli aveva mandato a fare in terra d’Egitto, al Faraone, ai suoi servi e a tutta la sua terra; e per la forza dimostrata e le cose grandi e terribili che Mosè aveva operato agli occhi di tutto Israele ”(Deut. 34:10-12). 

Strano epitaffio e strano epilogo di una grande storia. Intanto un problema: chi ha scritto queste parole? Perché se Mosè è, come tradizionalmente si ritiene, l’Autore che ha scritto tutta la Torà, come è possibile che si sia lodato da solo? Non contraddice questo un’altra descrizione della Torà dove si dice che “l’uomo Mosè era molto umile” (Numeri 12:3)? 
   
Per chi commenta la Bibbia, una domanda non ha mai una sola risposta. La soluzione più logica è ammettere che Mosè abbia scritto tutta la Torà, tranne le ultime righe, che sono state invece scritte dal suo successore Giosuè. Qualcun altro invece spiega che Mosè quando scriveva era ispirato dall’Alto, praticamente doveva scrivere quello che gli veniva dettato, anche le sue lodi. Che poi sono lodi strane: perché Mosè è stato l’inviato divino che ha sconfitto il potere egiziano, che ha condotto il suo popolo alla libertà, che l’ha guidato per quaranta anni di peregrinazioni nel deserto, che ha ricevuto le tavole della legge, che ha trasmesso l’insegnamento divino, che è stato supplice della salvezza del suo popolo in difficoltà dopo il peccato, sfidante del potere politico più grande dei suoi tempi; ma che è stato caratterialmente impulsivo fino all’omicidio, generoso difensore di deboli e oppressi, in continuo dubbio sulla sua forza e sul successo della sua missione, mite pastore, schivo dal potere, con difficoltà di parola; in una apparente continua contraddizione. Di tutto questo percorso la Torà alla fine ricorda la sua qualifica di profeta, che significa parlare a nome di un Altro; il suo contatto speciale con Dio “faccia a faccia”, le sue imprese egiziane, condotte non autonomamente come un’impresa politica, ma come esibizione di miracoli; la potenza e il carisma dimostrati davanti alla sua gente. 

C’è in questa scelta biblica un indirizzo preciso, la volontà di smontare ogni possibile culto della personalità. Nessuno è stato più grande di Mosè, nessun essere umano è stato più di lui a contatto ravvicinato con il sacro, eppure quello che ha fatto lo ha fatto in quanto strumento di una forza più grande di lui, che ha incarnato, usato e ostentato; ma l’uomo rimane uomo, anche nella sua grandezza. Su questo ruolo umano insistono le sottolineature del testo.

Se, come si è visto prima, è detto che “l’uomo Mosè era molto umile”, è anche detto che “l’uomo Mosè era molto grande in terra d’Egitto agli occhi dei servi del Faraone e agli occhi del popolo” (Esodo 11:3). Attenzione, non semplicemente “Mosè”, ma “l’uomo Mosè”. Attraverso questa umanità passa anche il gioco dell’identità personale; ce ne vuole perché Mosè, strappato alla famiglia in età neonatale e allevato alla corte egiziana, recuperi la sua identità originaria; esule dall’Egitto in terra di Midian, viene identificato come un “uomo egiziano” (Esodo 2:19), la stessa qualifica che la Torà usa per definire un ministro, capo dei coppieri (Genesi 39:1) e un aguzzino (Esodo 2:11). La trasformazione dell’uomo Mosè è in crescita; elemento che risalta a confronto con un’altra storia di trasformazione di uomo, questa volta in discesa, quella di Noè, che dapprima è uomo giusto (Genesi 6:9) e alla fine è “uomo della terra” (Genesi 9:20).


La debolezza degli uomini biblici è il paradigma della debolezza umana, ma è anche una strada verso la forza e la grandezza.


Mosè, per il particolare periodo storico in cui vive, si trova ad assumere diversi ruoli. E’ il condottiero, capo politico, che tratta con il Faraone, gli detta condizioni, lo sconfigge, poi esercita il potere per quaranta anni; è il profeta che comunica le volontà divine; è il sacerdote che istituisce i fondamenti della liturgia. Anche su questo il racconto biblico rivela debolezza e umanità. La regalità di Mosè si affievolisce nel tempo; entra in crisi alla fine dei suoi giorni, quando sembra non essere più all’altezza degli eventi; il popolo ha sete e chiede acqua; la prima volta che era successo gli era stato ordinato di percuotere la roccia, Mosè obbedì e dalla roccia scaturì l’acqua (Esodo 17); la seconda volta, alla fine del lungo cammino desertico, gli viene comandato di parlare alla roccia (Numeri 20:12); Mosè non coglie la differenza e percuote la roccia; l’acqua esce lo stesso, ma Mosè ha finito la sua carriera di leader; non ha capito che sono finiti i tempi del potere con il bastone e che ora è il tempo del potere con la parola. La parabola del suo sacerdozio finisce ancora prima e molto presto, una volta costruito e inaugurato solennemente il complesso del Tabernacolo, le funzioni sacerdotali vengono cedute al fratello maggiore Aharon e alla sua famiglia, con una ulteriore sottolineatura di differenza: la regalità di Mosè finisce con lui e non si trasmette ai suoi discendenti, mentre il sacerdozio, che origina dal fratello, è ereditario. Si noti, in questa catena di eventi e di simboli, lo sviluppo di un tema particolare, quello dell’acqua. Il racconto biblico lega l’acqua a Mosè dall’inizio alla fine. Il suo nome, in realtà egiziano (significa “figlio”) suona in lingua ebraica come “salvato dalle acque”; è sulle acque, che lui non tocca ma fa percuotere dal fratello, che avvengono i primi miracoli-piaghe d’Egitto; è sul mare che si apre che si consuma l’atto finale della liberazione dall’Egitto; è sulla mancanza d’acqua che scoppiano proteste e rivolte contro di lui, con le prove che lo mettono alla fine in difficoltà. 
   
Ma nella simbologia ebraica, quest’acqua che tanta parte ha nella vita politica di Mosè rappresenta anche l’insegnamento, la parola divina. Ed è su questo piano che si gioca la grandezza di Mosè. Sacerdote per breve tempo, re a vita senza eredi, Mosè nella memoria collettiva ebraica diventa immortale per un altro motivo.

I personaggi principali delle storie bibliche vengono ricordati con un attributo dopo il loro nome: i patriarchi Abramo, Isacco, Giacobbe, con la qualifica di “nostro padre”, le matriarche come “nostra madre”, Aharon come “il sacerdote”, Saul, David, Salomone, come “il re”, Samuele, Elia, Isaia, e gli altri come “il profeta”; al nome di Mosè, che è stato tutto questo (padre, almeno metaforicamente, re, profeta, sacerdote) si aggiunge invece la qualifica di rabbènu, “nostro Maestro”, ed è l’unico ad averla. 
Cosa resta dunque per gli ebrei del condottiero, del liberatore, del legislatore?  
L’insegnamento!  La parola di vita eterna che ha trasmesso all’umanità.



Rav Riccardo Di  Segni

Rabbino Capo della Comunità ebraica di Roma



Fonte: Roma Ebraica 17/lug/2013

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Yom Kippur

Yom Kippur

Il Giorno dell’Espiazione


 di Rav Riccardo Di Segni
Rabbino capo di Roma

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. “Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.

Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”. Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).

Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà. Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.

Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.

La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.

Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.

Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.

A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).

Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).

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Cultura ebraica

Cultura ebraica

Ha cento anni l’altra Sinagoga romana: l’Oratorio di Castro
La città ospita ben diciassette templi. La maggior parte sorti dal 2000 ad oggi
 

di Lauretta Colonnelli *

ROMA – Tutti conoscono la sinagoga di Roma, affacciata sul lungotevere Cenci con quella strana cupola in stile tra liberty e neo-assiro. Ma pochi sanno che la città di sinagoghe ne ospita ben diciassette. La maggior parte sono sorte negli ultimi quindici anni, nelle zone dove la popolazione ebraica è più concentrata, come l’area intorno a viale Marconi, il quartiere Africano, Monteverde e alcuni punti di Trastevere. Ci sono sinagoghe di rito sefardita, altre di rito askenazita, altre ancora dove si prega seguendo ulteriori variazioni, come il rituale romano e quello chiamato, in gergo, tripolino, perché importato dalle comunità scacciate dalla Libia al tempo di Gheddafi. Testimoniano una presenza ebraica che a Roma risale senza interruzioni almeno al II secolo a.C.. Al tempo di Augusto si contavano già dodici templi, in vari rioni dell’Urbe. Scomparvero tutte a metà del Cinquecento quando papa Paolo IV costrinse gli ebrei alla residenza obbligata nel quartiere davanti all’isola Tiberina, chiuso da muri e cancelli che rimasero fino a quando non furono abbattuti dai piemontesi, nel 1870. 

L’esterno dell’ Oratorio Di  Castro


Edificata nel 1914

Con l’apertura del ghetto tornò la libertà di costruire le sinagoghe. La prima fu quella a lungotevere Cenci, inaugurata nel 1904 e detta anche Tempio Maggiore. La seconda, chiamata Oratorio Di Castro, fu edificata in via Cesare Balbo 33 esattamente dieci anni dopo. Il progetto fu affidato a Osvaldo Armanni e Vincenzo Costa, gli architetti che già avevano ideato il Tempio Maggiore. Anche gli artisti incaricati delle decorazioni, Osvaldo Armanni e Vincenzo Costa, avevano già realizzato le vetrate e decorato gli interni della prima sinagoga. L’inaugurazione avvenne il 16 settembre 2014.
 
La storia in un libro

Tra pochi giorni ricorre dunque il centenario di questo tempio e per festeggiare l’evento, l’edificio resterà aperto a tutti nella Giornata europea della cultura ebraica, domenica 14, con un programma che prevede visite guidate, mostre, conferenze, concerti. E la presentazione del libro «L’Oratorio Di Castro. Cento anni di ebraismo a Roma (1914-2014)», curato da Claudio Procaccia (ed. Gangemi). Il tempio, tra l’altro, si inserisce perfettamente nel tema della Giornata di quest’anno, intitolata «Donna Sapiens» e dedicata al tema della figura femminile nell’ebraismo. Fu infatti una donna a permettere la sua costruzione. Si chiamava Grazia Pontecorvo. Rimasta vedova di Salvatore Di Castro, mancò nel 1909, senza lasciare figli né parenti. Lasciò però tutti i suoi risparmi alla comunità con l’intento di far sorgere un nuovo edificio di culto nella zona tra via Cavour e via Nazionale, dove negli anni precedenti si era insediata la nuova borghesia ebraica. 

La copertina


Il rabbino Riccardo Di Segni
 

«Prima che a Roma vi fossero tante sinagoghe periferiche – ricorda il rabbino Riccardo Di Segni – quella di via Balbo è stata l’alternativa, il luogo più informale, accogliente, sperimentale che vi fosse a confronto con l’edificio monumentale del lungotevere, impermeabile a qualsiasi modifica della sua pompa e del suo stile. Io stesso vi ho cantato l’Arvit del mio bar mizvà, visto che al Tempio Maggiore questa performance era consentita solo a voci degne della struttura monumentale o raccomandate». 

Il programma della Giornata europea della cultura ebraica prevede inoltre l’apertura del Museo ebraico con visite guidate al Tempio Maggiore e al Tempio Spagnolo, in via Catalana. Alla Casa internazionale delle donne la filosofa Katia Tenenbaum parlerà di «Anna O. o Bertha Pappenheim? Storia di una donna ebrea alle origini della Psicoanalisi». Alla Casa dei teatri si assisterà a «Parole e musica da Jézabel di Irène Némirovski», con il clarinettista Gabriele Coen e Lisa Ferlazzo Natoli. Alla Biblioteca del Parco si insegna ai bambini a costruire un libro ebraico e si conversa con Ilana Bahbout intorno al libro «Maschio e femmina Dio li creò. La donna nell’ebraismo» (ed. Sovera). Alla Casa della Memoria e della storia Micaela Procaccia, Giacometta Limentani, Piera Di Segni e Adachiara Zevi raccontano storie di «Donne ebree a Roma».

*Lauretta Colonnelli
(Il Corriere della Sera, edizione Roma, 7 settembre 2014)

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