Tag: Nostra Aetate

Lettera di Paolo ai Romani

Lettera di Paolo ai Romani

La Lettera ai Romani, uno degli scritti paolini più importanti del cristianesimo nascente, è molto ampia e ricca di tematiche complesse, con passi di ardua interpretazione. Fin dalle origini è divenuta uno dei capisaldi di quella teologia della sostituzione per la quale l’ebraismo e tutti i suoi valori fondanti erano ritenuti il “vecchio” da cui liberarsi per fare
posto al “nuovo”, ossia la fede cristiana.

Come hanno già fatto per la Didachè (2009), per la Lettera di Giacomo (2011) e per la Lettera agli Ebrei (2013), anche con la Lettera ai Romani i curatori si sono proposti di offrire un contributo per una sua reinterpretazione che ne metta in luce i profondi legami con l’ambiente ebraico d’origine.
Secondo questa nuova lettura, Shaul/Paolo appare come colui che ha cercato di raggiungere fuori della Terra d’Israele coloro che sono fuori della Torah, poiché Ha-Shem, il Signore, non è solo il Dio d’Israele ma di tutta l’umanità.
È significativo che, quando il Concilio Vaticano II con la Dichiarazione Nostra Aetate volle ridefinire in modo più positivo i rapporti con l’ebraismo, si sia ispirato proprio alla Lettera ai Romani per riconoscere che «gli Ebrei, in grazia dei Padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento» (Rm 11,28-29).
 
I curatori:
 
Marco Cassuto Morselli ha insegnato Filosofia ebraica e Storia dell’ebraismo presso il Corso di laurea in studi ebraici del Collegio Rabbinico Italiano (Roma). È autore de I passi del Messia. Per una teologia ebraica del cristianesimo (Marietti 2007). È Presidente dell’Amicizia ebraico-cristiana di Roma.
 
Gabriella Maestri dopo la laurea in Lettere classiche, ha conseguito il Dottorato presso il Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana. Da molti anni si occupa di ricerche sulle origini cristiane, soprattutto in relazione all’ebraismo.



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Vignette e religione: sì o no?

Vignette e religione: sì o no?

Una riflessione su rispetto e libertà


di: Vittorio Robiati Bendaud


Una premessa: sin da ragazzo sono lettore di Tex e di Dylan Dog. Complimenti, dunque, a casa Bonelli, che ha tanti meriti nell’alfabetizzazione – e non solo – di questo Paese.
Il fatto: la concorrente Editoriale Cosmo di Reggio Emilia ha diffuso in edicola questo mese il fumetto Nosferatu, con avventure di umani e vampiri. Tra gli epocali fenomeni narrati ci sarebbe l’umano vampirizzato Yehoshua di Nazareth, alias Gesù, ivi inclusa la sua resurrezione, trionfo della sua leadership e di un certo vampirismo (cfr. p. 68 e segg).


Non credo che l’ebreo Yehoshua di Nazareth, esponente di correnti ebraiche molto vicine all’ebraismo farisaico e influenzato forse dal coevo essenismo, al pari del Gesù Cristo degli amici cristiani, necessiti di difensori d’ufficio. Tramite i suoi insegnamenti, si difende benissimo da solo.


Tuttavia credo che da difendere ci sia il ben ragionare. Cartesio riteneva che il buon senso fosse diviso equamente tra gli esseri umani. Lo storico Marco Cipolla ci ha meglio edotti, fortunatamente, sulle leggi fondamentali della stupidità umana.


Dopo Charlie Hebdo, la domanda è: “E se ci fosse stato, anziché Gesù – o Mosè – (entrambi ebrei, comunque), Maometto? Che cosa sarebbe successo?”.


So già che, anche con un innegabile fondo di verità, molti converrebbero nel sostenere che l’errore consiste nel denigrare le religioni, deriva erronea della libertà di espressione. Sono d’accordo.


Tuttavia, vi è un grave vulnus: questa riflessione, così assennata, si fa strada dopo la tragedia parigina, dopo il terrore. Ci si esprime, per così dire, a posteriori


Accade a posteriori, in primo luogo, perché per anni si sono denigrati cristianesimo ed ebraismo e i loro rappresentanti in varie forme (si pensi, non da ultimo, alla locandina irriverente di un concerto punk a Ferrara denigrante il locale arcivescovo, per non parlare delle vignette offensive che circolarono su Benedetto XVI), senza il turbamento indignato di nessuno. Dov’erano gli indignati? Nel caso, chi li ha presi sul serio? Per i più si trattò, conseguentemente, di satira legittima, talché le rampogne degli offesi furono considerate come iper-sensibilità o come intolleranza. 


Quella stessa buona e colta espressione della società “laica” che oggi chiede il rispetto per l’Islàm è rimasta indifferente all’analogo trattamento riservato a ebrei e cristiani, quando invece non divertita o addirittura complice soddisfatta. Parimenti molti “intellettuali” ebrei e cristiani – ahimè quasi tutti purtroppo delle aree progressiste e politicamente orientati a sinistra -, in relazione a questo tipo di “satira”, hanno spesso preferito lasciar correre, sentendosi “liberali” e “tolleranti” e dimostrando, purtroppo, troppo poco attaccamento alle rispettive Comunità di fede e ai loro simboli più cari. Chi di questi due diversi, ma parimenti inani, gruppi di intellettuali e politici, ha tuonato e prende, per esempio, sul serio le migliaia di vignette antisemite, realmente demonizzanti gli ebrei, che riempiono i giornali del mondo arabo islamico da decenni e che sono da tempo ormai diffuse anche in Europa? La domanda è dunque anzitutto questa: perché invalsi trattamenti diversi circa la comune percezione dell’esercizio del diritto di satira – o della sua censura – per cristiani e ebrei da una parte e musulmani dall’altra?


Rispetto ai fatti del terrore di matrice islamica – a Parigi e non solo – la riflessione sul diritto di satira è a posteriori anche da un secondo punto di vista, più insidioso e preoccupante.


Si può invitare con fermezza, senza ambiguità insidiose, al rispetto per le religioni, ponendo limiti alla libertà di espressione e di satira, solo dopo il terrore? Specifico meglio: si può fondare – o invocare – una morale pubblica e intersoggettiva “del rispetto” unicamente a fronte del terrore esperito? Dunque, in definitiva, solo in quanto reazione, subendo così ancora la paura? Per dirla fuori dai denti: non è profondamente insidioso ed errato fondare il rispetto sulla paura?

Questo assoggettamento – a posteriori – a un’etica giornalistica e satirica della cautela a fronte del terrore scatenatosi – o potenziale e latente -, oltreché risentire di una debolezza concettuale e morale intrinseca, significa ahimè darla parzialmente vinta ai terroristi che, proprio con il terrore, vogliono imporre il loro non-pensiero e il loro fanatismo e, sempre con il terrore religioso, fondare l’etica pubblica.

Chissà se quanti oggi invocano, giustamente, il rispetto delle religioni in relazione a certa satira hanno pensato anche a questo dettaglio etico e politico, tutt’altro che trascurabile?


Permangono altre domande, diverse ma convergenti. 

Possono le religioni, che giustamente invocano la necessità di una satira non offensiva (con l’interrogativo non banale per l’autorità civile laica, aperto a risposte multiple e tra loro forse inconciliabili, di come individuare il limite giuridico dell’eventuale offesa), evitare di banalizzare e presentare in maniera caricaturale o, peggio, demoniaca, l’altro da sé, credente in altre fedi oppure non-credente? Anche in questo è necessaria la reciprocità. L’ebraismo, oltreché in alcune concezioni teologiche e normative arretranti all’epoca talmudica (la dottrina del Noachismo), pur con opinioni diverse, già nei suoi Maestri medievali, aveva dato risposte significative e costruttive (in rapporto, in particolare, agli altri due monoteismi). Si pensi a Yehudah ha-Levì e a Maimonide e, successivamente, a rabbini insigni quali ‘Emdin, Rivkis, Hirsch, Sacks. Il cristianesimo cattolico ha risposto in maniera ufficiale e vincolante in vari passi celebri di Nostra Aetate, della Lumen Gentium e della Gaudium et Spes.


Può l’Islàm condannare le vignette antisemite che circolano sui giornali arabi e di altri Paesi islamici? Può l’Islàm evitare di ridurre gli ebrei a coloro che hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani a coloro le cui pratiche cultuali posseggono sapori idolatrici, apprezzandoli positivamente e evitandone caricature, siano esse teologiche, morali o politiche?


Può la cultura laica evitare di banalizzare le religioni, svilendole unicamente – o in prima istanza – a generatori di violenza, anche se esistono legami insidiosi tra religioni e violenza? Può la cultura laica evitare di offrire una errata visione caricaturale, pseudo-illuminista, delle religioni, tal ché esse costituiscano soltanto un coacervo di ignoranza, psicosi collettive, mortificazione della libertà individuale e dispotismo? 


Avrei, infine, delle domande da porre a coloro che fanno satira “senza freni” e a certi vignettisti, specie in relazione al loro senso di responsabilità sociale. Tuttavia, a fronte di morti così orrende, preferisco condividere il loro lutto. Anche perché vi è un discrimine netto e inviolabile tra il dominio della parola, anche se mal esercitata, e il dominio della violenza fisica, laddove chi compie certi atti è meno che animale. Per non offendere gli animali, si capisce. 
Per il momento, in relazione agli editori di Nosferatu, mi chiedo – ed è ovviamente solo una provocazione – a quando, dopo Gesù, Mosè e Maometto? Saranno mummie, zombie o licantropi?


Vittorio Robiati Bendaud
29/01/2015 Milano
Fonte: www.mosaico-cem.it




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Buenos Aires (Argentina) – Dialogo Ebraico-Cristiano

Buenos Aires (Argentina) – Dialogo Ebraico-Cristiano


Dal 19 al 21 agosto avrà luogo in Buenos Aires (Argentina) l’annuale conferenza dell’ International Council of Christians and Jews (ICCJ) presieduta da Rav Abraham Skorka. Con la collaborazione dell’ American Interfaith Institute (AII), per la prima volta sarà possibile fruire, da parte di un auditorio on line, di otto Webinars (conferenze in live-streaming disponibili in Internet), che consentiranno una partecipazione virtuale ma interattiva ad alcune lezioni e gruppi di lavoro. 
Sarà possibile registrarsi alle pagine web dell’ American Interfaith Institute  http://www.americaninterfaith.org/iccj/
La conferenza dell’ ICCJ del 2015 si svolgerà a Roma, in occasione del 50° di “Nostra Aetate”.
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Antisemitismo in Italia e in Europa

Antisemitismo in Italia e in Europa

Attualità di un intervento

Mons. Pietro Rossano
«biblista e uomo del dialogo»

Per dire qualcosa di attendibile su un fenomeno così vasto, e guardandolo prevalentemente dal punto di vista religioso, ritengo necessario qualche preliminare.
Ricordo anzitutto che l’odissea ebraica è una delle più grandi epopee della storia. È anteriore al cristianesimo, e non si può immaginare il volto dell’Europa moderna senza l’apporto culturale, sociale ed economico degli ebrei. Ma quanto è difficile scriverla! La loro storia in questo continente è così differenziata, diacronicamente e sincronicamente, che per seguirla occorre padroneggiare non soltanto il latino, il greco e l’ebraico, ma l’aramaico, l’arabo, il yiddish, il ladino e tutte le maggiori lingue europee. Appare in ogni caso che l’antisemitismo rappresenta una patologia costante, latente o in atto, il cui punto più critico è la Germania, ma si constata anche che gli ebrei hanno conosciuto periodi di pace, di benessere e perfino di splendore che sono stati benefici per tutti.

Lo scrittore e storico inglese Hilaire Belloc parla di un «ciclo tragico» delle comunità ebraiche in Europa: «Cordiale accoglienza di una colonia ebraica, quindi disagio, seguito da un’acuta insofferenza, che esplode in persecuzioni, esìli e perfino massacri… seguiti da una reazione e dalla ripresa del processo ciclico ricordato» (Gli ebrei, trad. di A. Marioli, Milano 1934, p. 129). Lo stesso autore delinea quattro vicende nella storia ebraica in Europa: la distruzione, tentazione frequente di masse popolari o di despoti; l’espulsione, come quelle avvenute in Spagna, Inghilterra e Russia; l’assorbimento e l’assimilazione, promossa con vane tecniche, dal battesimo forzato alla obliterazione della identità sociale ebraica; la segregazione, che può essere ostile o rispettosa (op. cit. p.3 ss.).
Ritengo opportuno, dal mio punto di vista, distinguere tra antigiudaismo, antisemitismo moderno e antisionismo.

– l’antigiudaismo, di matrice per lo più religiosa, ha prevalso fino alla metà del secolo scorso. «L’affare di Damasco» e il «caso Mortara» seguiti dalla fondazione dell’Alliance Israelitique Universelle (Parigi I960) ne possono segnare la peripezia finale.

– l’antisemitismo moderno è un magma di elementi razziali, economici, nazionalistici, politici, senza escludere gli stereotipi religiosi: ha i suoi classici (E. Drumont, La France juive, 1886, W. Marr, The victory of Jewry over Germanism, A. Stocker, A. Rohling) e i suoi Pamphlets diffamatori!

– l’antisionismo del nostro secolo è nato come opposizione al Sionismo promosso da Herzl, per ridare a Israele la sua patria spirituale.

Tenendo distinti, anche se non separati, questi tre fenomeni mi sembra si possa affermare che la Chiesa cattolica ha implicazioni e responsabilità diverse in ciascuno di essi, ma nel nostro secolo, con gli ultimi Papi, e con il Concilio Vaticano II ha corretto decisamente la sua rotta, avviando un processo di eliminazione delle matrici religiose dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, affermando il diritto alla libertà religiosa per tutti, e per il popolo ebraico il diritto a vivere nella terra che gli appartiene.

Comincio con l’antigiudaismo.

La Chiesa ha tenuto fin dagli inizi un atteggiamento bivalente verso gli ebrei. Da una parte ha sempre onorato la propria parentela religiosa con Israele, dall’altra gli ha sempre rimproverato la per-fidia, cioè la fede venuta meno davanti al Cristo-Messia. Per questo gli ebrei furono tollerati ma umiliati, accettati ma sottomessi. Per la società medievale che distingueva i popoli con criteri religiosi, c’erano i cristiani e gli infedeli. Gli ebrei stavano nel mezzo, non esclusi come gli altri infedeli, ma non cittadini come i cristiani. Il codice di Teodosio (438 d.C.) fu la base di tutta la legislazione medievale a questo riguardo, canonica e civile. L’ebraismo era tollerato come l’unica religione dissenziente in seno alla cristianità. Era riconosciuto ufficialmente, ma a condizione di non accampare diritti. Ciò faceva sì che gli ebrei non potessero fare nulla senza il permesso concesso per graziosa disposizione dai re, papi, baroni, vescovi, abati, città, ecc… Cotesta situazione offriva esca al disprezzo sociale da parte dei cristiani e al risentimento da parte degli ebrei. «Questo dualismo, osserva uno storico dell’ebraismo (F. Schweitzer, A History of the Jews, London, 1971, p.75) di condannare gli ebrei a una condizione di paria da una parte e di salvaguardare loro certi diritti dall’altra, era…molto difficile da mantenere. Perché richiedeva nelle pubbliche autorità, civili ed ecclesiastiche, di camminare sullo stretto sentiero di prevenire gli ebrei dall’’andare oltre i magri diritti che avevano nella loro ignominia, e di impedire ai cristiani di infrangere tali diritti». Ciò spiega come Papa Callisto II emanasse nel 1120 una Constitutio pro Judaeis, una specie di Magna Charta negativa che vietava i battesimi forzati, l’aggressione agli ebrei e alle loro proprietà, la dissacrazione dei cimiteri, ecc. e come il terzo e quarto Concilio Lateranense qualche decennio dopo (1179 e 1215) imponessero divieti restrittivi agli ebrei, miranti a isolarli dalla vita sociale, li obbligassero a portare un segno distintivo (un cerchio giallo o cremisi sul vestito). Tale ambivalenza è continuata con l’abbruciamento del Talmud, la costituzione del ghetto di Roma, i processi dell’Inquisizione da una parte, mentre dall’altra parte si invitavano medici ebrei alla corte papale, si promuoveva lo studio dell’ebraico nelle facoltà di teologia, e Ignazio di Loyola, a dire del suo compagno e biografo Pedro Ribadeneyra (Dicta et facta Ignatii, Vol. I, p. 24), dichiarava un giorno che «non poteva immaginare per sé un privilegio più alto che essere ebreo, perché così sarebbe stato parente secundum carnem di Gesù Cristo suo Signore e della Vergine sua madre», e amava dirsi un «semita spirituale».
In questo clima non appariva altra soluzione del problema ebraico che la conversione al Cristianesimo e si svilupparono stereotipi teologici e sociologici che offriranno esca all’antisemitismo moderno.
Questo, come ho accennato, si venne sviluppando nella seconda metà del secolo scorso in Francia, in Germania e in Unione Sovietica, mentre l’Italia, il Belgio, l’Olanda e la Gran Bretagna, ne furono meno coinvolti. Non dimentichiamo che Roma ebbe un sindaco ebreo, Nathan, e l’Italia un capo del Governo ebreo (Luigi Luzzatti,1910-11).

L’antisemitismo moderno si alimentò da matrici economiche, razziali, politiche, nazionalistiche, culturali, illuministiche (non si dimentichi Voltaire e tanti altri) e veicolò spontaneamente gli stereotipi religiosi e culturali della tradizione medievale e controriformistica, favorito, o almeno non impedito, dall’inerzia del pensiero teologico sulla realtà dell’Ebraismo religioso. Due personalità ecclesiastiche levarono per prime a Roma e in Italia la voce contro l’antisemitismo: furono il Padre Semeria e Mons. Bonomelli, poi Vescovo di Cremona, che dichiaravano assurde le ragioni razziali, non fondate quelle economiche, «non cristiano» l’atteggiamento antisemita, e che agli ebrei di oggi non si può proprio imputare la morte di Gesù.

Nel 1926 Pio XI condannava l’Action Française nei cui programmi figurava l’antisemitismo; nel 1931 riceveva in udienza il Rabbino capo di Milano, Alessandro da Fano.

Si inserisce qui la vicenda dell’Associazione Amici Israel e del suo manifesto intitolato Pax super Israel; Vi aderivano 19 Cardinali, tra cui Merry del Val, Segretario di Stato di Pio X, 278 Vescovi e 3000 sacerdoti, tra cui 5 Consultori del S. Offizio. L’Associazione si proponeva la soppressione della preghiera del Venerdì Santo «pro perfidis Judaeis», il rigetto dell’accusa di «deicidio», la cessazione delle celebrazioni liturgiche riferite a leggendari omicidi rituali compiuti dagli ebrei. Un decreto del S. Offizio del 25 marzo 1928 pose fine all’Associazione, perché non rispondente alla prassi della Chiesa, ma ne dichiarava «lodevole» lo spirito, e condannava senza mezzi termini (reprobat vel maxime damnat) l’antisemitismo, descritto come odium adversus populum olim a Deo electum.

Tutti conoscono le posizioni di Pio XI, il suo celebre «Noi siamo spiritualmente semiti» del 6 settembre 1938, giorno successivo alla promulgazione delle leggi antiebraiche in Italia e il suo progetto, impedito dalla morte, di una lettera enciclica sull’antisemitismo. Frattanto scrittori cattolici come Maritain, Mounier, Leòn Bloy prendevano ferma posizione in Francia contro l’antisemitismo, ma Giovanni Papini in Italia non ne era immune (cfr. il capitolo «Le idee di Ben Rubi» nel Gog).

Poi vennero la guerra e la Shoah. La posizione della Chiesa verso gli ebrei si consolidò ufficialmente al di là di ogni equivoco, prima con l’impegno caritativo, sotto Pio XII, poi con Giovanni XXIII, che cominciò con il piano affettivo (ricordiamo l’espressione «Io sono Giuseppe vostro fratello»), per passare nell’enciclica «Pacem in terris» a quello giuridico-teologico della libertà della professione religiosa, che deve «essere immune da ogni costrizione».

Il problema degli ebrei entrò nel Concilio con la Dichiarazione sulla libertà religiosa, e quella Nostra aetate, e venne ribadito nei due documenti del 1975 e 1985 della Commissione Pontificia per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Devono essere ricordati qui gli interventi espliciti e numerosi di Giovanni Paolo II, la dichiarazione fatta a Mainz (1980) che l’alleanza ebraica «non fu mai abolita», e la visita alla Sinagoga di Roma (1986) che intese simbolicamente chiudere un passato e consolidare una ritrovata fraternità.

Che cosa si propone la Chiesa? Educare i cristiani al rispetto e alla stima per il popolo ebraico e la sua fede, sviluppare la comprensione teologica del rapporto cristiano-ebraico e promuovere, dove è possibile, una collaborazione sociale e culturale. Tale è lo scopo della giornata annuale per l’ebraismo, fissata l’anno scorso dalla CEI per la Chiesa italiana il 17 gennaio di ogni anno.

Una parola infine sul Sionismo e l’antisionismo.

La posizione della Santa Sede è passata da un atteggiamento iniziale di benevola neutralità («la consideriamo una questione umanitaria» dichiarava il Segretario di Stato Card. Merry del Val a Theodore Herzl nel 1904) al riconoscimento, più volte affermato, del diritto di Israele di vivere al sicuro nella terra legittimamente posseduta, e alle dichiarazioni, anch’esse ripetute, che non sussistono pregiudiziali teologiche verso lo Stato d’Israele, ma che gravi cause persistenti impediscono tutt’oggi alla Santa Sede di perfezionare le relazioni politiche. In questo ambito l’antigiudaismo e l’antisemitismo sono del tutto fuori causa.

Riesce la Chiesa nel suo proposito di realizzare un nuovo corso con il popolo ebraico?

Un episodio può servire da spia per comprendere ciò che è stato fatto e ciò che resta da completare. Nella memoria dei Santi Gioacchino ed Anna, che il calendario cristiano colloca il 26 luglio, l’oremus della Messa recita nel testo ufficiale latino: «Domine Deus Patrum nostrorum… che hai preordinato Gioacchino ed Anna ad essere genitori della Madre del tuo figlio incarnato, concedici per loro intercessione… ut salutem tuo promissam populo consequamur». Il messale italiano traduce: «… concedi ai tuoi fedeli di godere i beni della salvezza eterna»: lasciando così cadere la grande categoria teologica dell’associazione dei cristiani alla promessa fatta al popolo ebraico».

Errore, svista, disattenzione? Non voglio giudicare, ma questo caso dimostra che c’è ancora da lavorare in questo campo.

Roma, 12 luglio 1990 – Camera dei Deputati – Tavola rotonda sul tema “L’Antisemitismo in Italia e in Europa”. 
Intervento di Mons. Pietro Rossano Magnifico Rettore dell’Università Lateranense

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Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.

Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.

Una sfida da accogliere

Giorgio Israel

La sfida è trasportare i risultati ottenuti nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

Quando si parla dell’antisemitismo cristiano non occorre dimenticare il percorso compiuto in circa mezzo secolo. Constato senza esitazione che i miei figli non hanno conosciuto nemmeno una piccola parte delle cattive parole, delle insinuazioni devastanti, delle pressioni psicologiche che ho subito nei miei anni scolastici. L’insegnamento del disprezzo sopravvive, ma in circoli ristretti ed esterni alla dottrina ufficiale della Chiesa. Come dimenticare quel che veniva scritto ancora meno di un secolo fa sull’organo ufficiale dei Gesuiti, “Civiltà Cattolica”? Prose come quelle stentano a uscire – almeno in quei termini – persino dal covo più accanito dell’antisemitismo cattolico, la comunità lefebvriana. Un grande cammino è stato compiuto in mezzo secolo dopo duemila anni di odio e di persecuzioni.

Eppure questo non ci basta, ed è giusto che sia così. Ma non sarebbe giusto svalutare l’importanza di quel cammino, altrimenti non sapremmo neppure cosa resta da fare. L’opera di Giovanni XXIII e la Nostra Aetate hanno segnato l’inizio della svolta. Quel testo contiene l’embrione della tesi più audace, secondo cui i «doni» e la «vocazione» di Dio sono «senza pentimento», accanto a un atteggiamento di generica benevolenza: gli ebrei sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Era un passo decisivo per sbarazzare il campo dell’insegnamento del disprezzo incorniciato in un invito ai fedeli alla tolleranza e al rispetto malgrado le incomprensioni depositate nei secoli. Per iniziare a spazzare via il terreno da queste incomprensioni occorrevano atti concreti, spettacolari, carichi di emozioni. Tale fu la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Il papato di Wojtyla non è stato esente da passi incespicanti, soprattutto in certe occasioni pasquali in cui rispuntarono ambigui accenni sul ruolo degli ebrei nella Passione di Gesù.

Ma la nota dominante fu quella della traduzione sul piano concreto dell’invito contenuto nella Nostra Aetate. Giovanni Paolo II dichiarò che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». Fu, ancor più che un asserto teologico, un proclama pratico, un invito a incontrare non soltanto un ebraismo astratto e cristallizzato nel passato, ma l’ebraismo vivente e, in definitiva, a incontrare gli ebrei. Ma neanche questo poteva bastare. Non poteva bastare la professione di fratellanza e il fatto emotivo, perché le radici più profonde, ostinate e difficili da sradicare sono sul terreno teologico. Chi ha compreso che questo era il passo decisivo da compiere è stato il Cardinale Ratzinger, prima sotto il papato di Giovanni Paolo II, e poi come quel papa Benedetto XVI che si è dimesso con un gesto che ha lasciato il mondo attonito. Sono in tanti, quasi tutti, a riconoscere l’importanza dell’opera da lui fatta, ma nel passato non sono stati altrettanti ad averla compresa e apprezzata; soprattutto ad aver valutato lo straordinario sforzo concettuale e teologico compiuto con il documento del 2001 su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”. È un testo che sviscera tutti i passi evangelici in cui trova alimento l’antigiudaismo, al fine di eliminare le potenzialità negative che essi possono contenere.

A questo testo occorre aggiungere varie parti dei libri di Benedetto XVI su Gesù di Nazareth, che hanno sottratto ogni spazio al tragico mito del deicidio. C’è chi ha minimizzato l’importanza di quest’opera – che invece, a mio avviso, costituisce la conquista più solida di tutte – a causa della visione complessiva ratzingeriana tesa a una forte difesa della dottrina e della tradizione. È curioso che questa accusa sia venuta talora da chi propone una difesa del tutto analoga in ambito ebraico. È un atteggiamento incoerente: perché mai si dovrebbe chiedere un atteggiamento riformatore alla Chiesa quando si considera un indirizzo del genere una sciagura per sé stessi? Chi scrive considera
negativo – per dirla con le parole di Alberto Cavaglion – che siano sempre i “modernisti” ad avere la peggio. Ma non si può predicare il “modernismo” a tutti salvo che a sé stessi. L’importanza dell’opera teologica di Benedetto XVI è provata dal fatto che essa ha reso possibile il dialogo sul tema più difficile. Basti pensare al noto libro del rabbino Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù; o all’affermazione del rabbino Gilles Benheim – che ricordavo nell’ultima rubrica di Shalom -secondo cui l’antigiudaismo sarà superato definitivamente quando i cristiani riusciranno a percepire il significato positivo del “no” ebraico alla divinità di Gesù. Cosa resta da fare? Il lavoro lungo e complesso di trasportare questi risultati nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

È un lavoro tanto più complesso in un periodo di grande difficoltà e di sfide epocali per il mondo cattolico, e cristiano in generale, di cui le dimissioni del Papa sono la testimonianza. Sta alla saggezza di tutti mettersi gli occhiali di quel che unisce, persino quando si guarda a quel che divide, anziché darsi all’opera di distruzione, la più facile di tutte.

Giorgio Israel

Fonte: Shalom, marzo 2013

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NUOVI ORIZZONTI TRA EBREI E CRISTIANI

NUOVI ORIZZONTI TRA EBREI E CRISTIANI

Nathan Ben Horin

L’apertura di nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani è dovuta, in massima parte, a tre eventi: la Shoah, la nascita dello Stato d’Israele e il Concilio Vaticano II. Fra le molte voci che periodicamente intervengono sul tema del dialogo ebraico-cristiano, quella di Nathan Ben Horin ci pare particolarmente significativa per equilibrio e pacatezza, oltre che per autorevolezza.

Quali orizzonti per il dialogo? 

Prima in Francia, a combattere contro i nazisti. Poi in Israele, a combattere per l’indipendenza. Infine a Roma, incaricato dei rapporti con il Vaticano: dal 1961 come primo segretario dell’ambasciatore israeliano in Italia, dal 1980 al 1986 come ministro plenipotenziario.

Iniziata prima che spirasse il vento nuovo del concilio Vaticano II e che prendessero forma le intuizioni della Nostra Aetate, finita prima del riconoscimento de iure dello Stato di Israele da parte del Vaticano tra il 1993 e il 1994, la carriera diplomatica di Nathan Ben Horin rappresenta una testimonianza tra le più dirette della storia delle complesse relazioni tra Israele e la Santa Sede. Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani, una raccolta curata da Pietro Stefani di otto interventi pronunciati in varie occasioni da Ben Horin tra il 1986 e il 2008, è per questo uno dei libri più utili se si vuole comprendere cosa pensi Israele di se stesso, cosa attenda da quanti si accreditino come suoi interlocutori e perciò anche, come recita il titolo, in quali orizzonti tra ebrei e cristiani possa esistere dialogo (quanta strada sia stata fatta e quanta ne resti da percorrere).

Certo, leggendo Ben Horin, il centro della questione non è mai l’ebraicità di Gesù di Nazareth o la riabilitazione dei farisei, né, in fondo, l’eliminazione, pure indispensabile, di certe caratteristiche posizioni del pensiero cristiano preconciliare: l’accusa di deicidio, per intendersi, o la cosiddetta teologia della sostituzione, così concentrata sul «nuovo» Israele, cristiano, da potersi dimenticare del patrimonio spirituale, se non della stessa esistenza, di quello «vecchio». Acqua passata, si potrebbe dire.

Ma c’è un punto ostico, che pesca nel profondo delle rispettive concezioni dell’umano e del divino: è la terra di Israele con la sua capitale Gerusalemme, contemporaneamente promessa divina e comandamento per il suo popolo secondo il sionismo più autentico. È facile per un non ebreo credere o anche solo accettare che attraverso la vita di uno Stato, attraverso la sua stessa sopravvivenza entro confini scritti tra la terra e il Cielo, permane l’alleanza di Dio con tutta l’umanità?

In almeno sei degli interventi riportati questo è il punto su cui Ben Horin si sofferma maggiormente, proprio perché capisce che soprattutto dal punto di vista cattolico (e non invece secondo alcune impostazioni nate in seno al protestantesimo specialmente statunitense) risulta innaturale legare la salvezza a una terra specifica, e questo a prescindere dalle difficoltà di ordine politico sorte passo dopo passo nella storia dello Stato ebraico.

Gli ultimi due interventi riportati in coda vedono Ben Horin sotto un altro aspetto: quello di membro della Commissione per la designazione dei Giusti fra le nazioni (ruolo tuttora ricoperto); si parla in modo interessante dei criteri e delle difficoltà che emergono quando si cerca di individuare un «giusto», cioè un non ebreo che durante la Shoah ha aiutato, a rischio della vita, i perseguitati dai nazisti.

Daniele Civettini

Fonte:Terrasanta.net

Nathan Ben Horin
Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani
Edizioni Messaggero, Padova

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Farneticanti dichiarazioni antisemite

Farneticanti dichiarazioni antisemite

Lefebvriani anti ebrei, sconcerto vaticano

Gian Guido Vecchi 
 
Basilica di San Pietro: una sessione del Concilio Vaticano II
«Noi abbiamo molti nemici, molti nemici. Ma, guardate, è molto interessante. Chi, in tutto questo tempo, è stato il più ostile a che la Chiesa riconoscesse la Fraternità? I nemici della Chiesa: gli ebrei, i massoni, i modernisti».
Rimandata e trascritta in Rete, la voce di monsignor Bernard Fellay, superiore dei Lefebvriani, ha fatto il giro del mondo. Secca la condanna del Centro Simon Wiesenthal: «La descrizione degli ebrei come “nemici della Chiesa” prova una volta di più l’antisemitismo profondamente radicato al cuore della teologia della Fraternità».
Mentre in Vaticano, con «sconcerto», si fa sapere che «naturalmente» una posizione simile contro gli ebrei è «insostenibile», e padre Federico Lombardi elenca i testi del Concilio, il magistero dei Papi e le parole e le visite di Benedetto XVI alle sinagoghe di Colonia, New York, Roma e Gerusalemme.
Di certo quelle di Fellay sono parole che pesano, mentre i negoziati tra Santa Sede e seguaci del vescovo scismatico Lefebvre sono in stallo. La storia si trascina dal 2009: il Papa che, come «gesto discreto di misericordia», toglie la scomunica ai quattro vescovi della Fraternità subendo polemiche mondiali (nessuno lo avvertì che uno di loro, Richard Williamson, è un antisemita che nega la Shoah: solo di recente è stato espulso dalla Fraternità, ma per disobbedienza) e poi tre anni di trattative per ricomporre lo scisma, la Santa Sede che offre loro di diventare una «prelatura personale» come l’Opus Dei.
Risultato? Fellay che in estate spiega: «Con Roma siamo a un punto morto e non possiamo firmare». E la commissione vaticana «Ecclesia Dei» che a fine ottobre dice che «sono necessarie pazienza e fiducia» perché «dopo trent’anni di separazione è comprensibile che vi sia bisogno di tempo».
Il problema, per i Lefebvriani, è sempre lo stesso: il riconoscimento del Concilio e dei suoi documenti, a cominciare dalla Nostra Aetate che segnò la svolta della Chiesa con gli ebrei, non più «deicidi».
Il capo dei Lefebvriani, il 28 dicembre in Canada, ha indicato «ebrei, massoni e modernisti» come i «nemici della Chiesa» che remano contro: «Persone che sono all’esterno della Chiesa e chiaramente nel corso dei secoli sono state nemici della Chiesa, hanno detto a Roma: se volete accettare questa gente, bisogna obbligarli ad accettare il Concilio».
Fellay è sarcastico: «Non è interessante? Penso sia fantastico! Perché questo mostra che il Vaticano II è cosa loro!». Cosa loro.
I Lefebvriani Usa hanno tentato di replicare alle polemiche dicendo che la parola «nemici» è stata usata da Fellay «in senso religioso» e «non si riferiva al popolo ebraico ma ai leader delle organizzazioni ebraiche».
Fonte: “Corriere della Sera” dell’8 gennaio 2013
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Jules Isaac – Gesù e Israele

Jules Isaac – Gesù e Israele

 Viene nuovamente presentato al lettore italiano uno dei grandi libri del XX secolo. Jules Isaac (Rennes 1877 – Aix-en-Provence 1963) iniziò a scriverlo nel 1943, quando la sua esistenza, ormai alle soglie della vecchiaia, era minacciata ed errante, sconvolta e perseguitata. Dopo quasi quarant’anni di insegnamento della Storia, nella Francia occupata dai Tedeschi egli dovette abbandonare tutto e fuggire. Vide i suoi numerosi libri, frutto di una vita intera dedicata agli studi, finire al macero.

Nascosto nella campagna francese con la moglie, la figlia, il genero e il figlio (che vennero scoperti e deportati nei campi di sterminio: solo il figlio farà ritorno) Isaac iniziò a chiedersi come fosse possibile nel cuore dell’Europa, nel cuore del Novecento una simile barbarie. Com’è stata possibile la Shoah nell’Europa da secoli cristiana?

Non vi è dubbio che l’antisemitismo nazista è altra cosa rispetto all’antiebraismo teologico, ma la sconvolgente scoperta di Isaac è che l’insegnamento del disprezzo, capillarmente diffuso per secoli, e che ha il suo culmine nel mito del popolo deicida, ha contribuito a preparare e rendere possibile la distruzione degli Ebrei d’Europa.

Terminato nel 1946 nella solitudine di un rifugio e pubblicato a Parigi nel 1948, Gesù e Israele non può essere considerato un’opera di scienza (come lo stesso Isaac riconosce). È invece “il grido di una coscienza indignata, di un cuore lacerato”.

Il libro si compone di ventun argomenti e di una conclusione pratica, che così riassumiamo:

1 – La religione cristiana è figlia della religione ebraica.
2 – Gesù è ebreo.
3 – Ebraica è la sua famiglia, ebrea è sua madre Maria (Miryam), ebraico è l’ambiente nel  quale vive.
4 – Gesù è circonciso.
5 – Il suo nome ebraico è Yeshua. Cristo è l’equivalente greco di Messia.
6 – Il Nuovo Testamento è scritto in greco, ma Gesù parlava aramaico.
7 – Nel I secolo in Israele la vita religiosa era profonda e intensa.
8 – L’insegnamento di Gesù si è svolto nel quadro tradizionale dell’ebraismo.
9 – Gesù ha osservato la Torah. Non ne ha proclamato l’abolizione.
10 – È un errore voler separare il Vangelo dall’ebraismo.
11 -La diaspora ebraica ha avuto inizio molti secoli prima della nascita di Gesù.
12 – Non si può affermare che il popolo ebraico nella sua totalità abbia rinnegato Gesù.
13 – Secondo i Vangeli, ovunque Gesù sia passato, salvo rare eccezioni, è stato accolto con entusiasmo.
14 – Non si può affermare che il popolo ebraico abbia respinto il Messia.
15 – Gesù non ha pronunciato una sentenza di condanna e di decadenza d’Israele.

Gli argomenti dal 16 al 20 sono dedicati al tema del popolo deicida: “In tutta la Cristianità, da diciotto secoli, si insegna correntemente che il popolo ebraico, pienamente responsabile della crocifissione, ha compiuto l’inesplicabile crimine del deicidio. Non vi è accusa più micidiale: effettivamente non vi è accusa che abbia fatto scorrere più sangue innocente”.

21 – Israele non ha respinto Gesù né lo ha crocifisso. Gesù non ha respinto Israele né lo ha maledetto.
22 – Conclusione pratica: necessità di una riforma (redressement) dell’insegnamento cristiano.

Nell’estate del 1947 si tenne a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di Paesi. Isaac aveva preparato uno schema in diciotto punti, che vennero discussi, e infine venne approvata una dichiarazione conosciuta come I dieci punti di Seelisberg. Viene riportata in appendice perché è interessante confrontare quei punti con gli argomenti di Gesù e Israele.

In quell’occasione venne anche fondato l’International Council of Christians and Jews. Aveva dunque inizio un’altra fase della vita di Isaac, il quale fu tra i promotori dell’Amitié Judéo-Chrétienne de France (fondata nel 1948) e si adoperò per la costituzione della prima Amicizia ebraico-cristiana italiana (che venne fondata a Firenze nel 1950). Altri due libri vennero a completare il lavoro iniziato con Gesù e Israele : Genèse de l’antisémitisme (Paris 1956) e L’enseignement du mépris (Paris 1965).

Incontrò due Papi: nel 1949 venne ricevuto da Pio XII e nel 1960 da Giovanni XXIII. Nel corso di questo secondo incontro consegnò un Dossier che il Papa affidò al cardinale Bea: sarebbe stato all’origine della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II.

Da allora, si è aperta una nuova era nelle relazioni ebraico-cristiane, anche se il lavoro è enorme e le difficoltà ancora numerose. A cinquant’anni di distanza, molte cose sono cambiate, e molti degli argomenti di Isaac vengono comunemente accettati.

Ci si può chiedere però quale sia il senso di questo avvicinamento tra ebrei e cristiani. Non è in fin dei conti rischioso sia per gli uni che per gli altri? Non c’è il rischio di annullare le differenze in un confuso sincretismo?

Queste preoccupazioni sono bene espresse da uno dei grandi maestri dell’ebraismo novecentesco, R. Joseph B. Soloveitchik: “Il dialogo non deve toccare argomenti di ordine teologico, ma solo questioni laiche, di interesse comune” e più avanti: “Collaboriamo con persone appartenenti ad altre fedi in tutti i campi dello sforzo umano, ma nello stesso tempo cerchiamo di preservare la nostra distinta identità, che inevitabilmente comprende aspetti di separazione”.

Da parte cristiana questa posizione viene così presentata dal pastore Matin Cunz (che la pensa diversamente ed è uno dei protagonisti del dialogo ebraico-cristiano): “Abbiamo una grandissima colpa riguardo agli ebrei. Abbiamo frainteso il Vangelo, abbiamo tradito i precetti del Cristo, il figlio del popolo ebraico. Ma tutti questi fatti tristi e vergognosi non devono e non possono cambiare le fondamenta della teologia cristiana. Le verità rimangono le stesse, il comportamento deve cambiare”.

Isaac, da parte sua, licenziava il suo volume con queste sorprendenti parole:”Forse qualcuno si domanderà a quale confessione appartenga l’autore. La risposta è facile: non appartiene a nessuna confessione. Ma tutto il libro attesta il fervore che lo ispira e lo guida”. Accusato di ambiguità, egli preciserà: “Fervore rispetto a Israele, fervore rispetto a Gesù, figlio d’Israele”.

Se l’Alleanza con Israele non è mai stata revocata, se rav Yeshua ben Yosef non ha abolito la Torah, se la Cristianità non si è sostituita a un Israele maledetto o comunque decaduto siamo di fronte alla necessità di ridefinire la relazione tra Israele e le Chiese.

La purificazione dell’insegnamento del disprezzo e l’abbandono della teologia della sostituzione rendono possibile un riconoscimento: l’Alleanza è stata estesa alle nazioni. Il che non priva i cristiani di essere testimoni della loro fede di fronte a Israele, anzi, per la prima volta, rende la loro testimonianza credibile. Il grosso problema è sapere in che cosa propriamente tale testimonianza consista.

Per quanto possa sembrare paradossale, la testimonianza messianica delle nazioni comporta in primo luogo la consapevolezza che non è la kefirah (apostasia) d’Israele a poter essere un segno della Redenzione. Se Israele è la radice santa, ha senso sperare nella sua conversione in ramo?

Questa nuova consapevolezza rappresenterebbe una vera teshuvah, che permetterebbe di partecipare al banchetto preparato dal Signore per tutti i popoli, quando verranno distrutti il velo e la coltre posti sui loro volti (Is 25, 6-8).

Marco Morselli

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