GIORNATA DI RIFLESSIONE EBRAICO-CRISTIANA
Pontificia Università Lateranense, 16 gennaio 2014
L’Ottava Parola: “Lo Tignòv – Non Rubare” (Esodo 20,15)
Saluto
S.E. Mons. Enrico DAL COVOLO (Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense)
Saluto cordialmente tutti voi qui presenti, in modo particolare l’Ecc.mo Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, il Dr. Riccardo Di Segni. Poi il Prof. Stefano Zamagni, dell’Università di Bologna e il Presidente di questo Simposio, Mons. Marco Gnavi, Incaricato Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo.
Procedendo nei nostri incontri annuali siamo giunti a commentare l’VIII^ Parola di Es 20,15, “Non rubare”. A prima vista, con l’ingiunzione negativa il settimo Comandamento sembra orientare l’attenzione soltanto verso i beni e le proprietà private del prossimo restringendone la portata. In realtà il Comandamento riportato nelle due redazioni del Decalogo – quella dell’Esodo e quella del Deuteronomio – non specifica esattamente l’oggetto né il destinatario e tanto meno allude solo al furto, ma estende gli orizzonti di attuazione che coinvolgono i diversi ambiti delle relazioni umane, sociali e religiose. Lo stesso comandamento è attualizzato, insieme agli altri comandamenti, nel Nuovo Testamento, durante il dialogo tra Gesù e il giovane ricco e a proposito dell’adempimento dei comandamenti che si riassume nel precetto “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Per cogliere le ampie prospettive del Comandamento vi invito a soffermare la vostra attenzione su quel celebre passo in cui Giovanni Crisostomo interpreta la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone: non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo, sono dei poveri. Da studioso dei Padri posso dirvi che parole di questo genere le ritroviamo lungo i secoli. Sono due le linee di tendenza nei Padri della Chiesa: da una parte la linea che insiste sulla povertà radicale, l’altra che insiste sulla condivisione. Ma in ciascuna delle due linee trovate come punto di riferimento l’imprescindibile necessità di condividere con i poveri. Si può osservare che l’asserzione del Crisostomo estende gli orizzonti del VII Comandamento e coinvolge in maniera globale le relazioni tra il ricco e il povero, tra i diversi gruppi sociali, tra le nazioni ricche e povere. Per questo, a partire dalla Costituzione Conciliare Gaudium et Spes fino alla Centesimus Annus, alla Sollecitudo Rei Socialis e alla Laborem Exercens di Giovanni Paolo II, fino alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI e ora alla Evangelii Gaudium di Papa Francesco, il VII Comandamento è interpretato dalla tradizione della Chiesa nei suoi risvolti non soltanto negativi e della proprietà privata da rispettare, bensì anche in quelli positivi del diritto del lavoro, dell’integrazione sociale, del superamento delle piaghe sociali vecchie e nuove. Si pensi in particolare alle implicazioni del comandamento circa la disoccupazione delle giovani generazioni che assume oggi proporzioni preoccupanti. Così il Comandamento svolge una funzione non soltanto negativa, bensì positiva, che implica il rispetto, la tutela e la garanzia di quanto è dell’altro e merita di essere conservato e valorizzato. Lo stesso Comandamento veicola alcune virtù basilari che valgono sia per l’Ebraismo sia per il Cristianesimo. Segnaliamo soprattutto la solidarietà nei confronti dell’altro a prescindere dalla sua origine e dalla sua professione religiosa; la giustizia sociale con le sue diverse espressioni, sia sul versante distributivo sia su quello commutativo; la temperanza e la moderazione nell’uso personale di beni.
Pertanto restringere il VII Comandamento al furto dei beni personali significa ridurne la portata e alla fine fraintenderne le modalità di attuazione. “Non rubare” coinvolge non solo il furto, ma anche la frode e la corruzione nelle loro diverse forme, da quella fiscale a quella dei beni pubblici e privati. Anche la speculazione economica nelle sue diverse espressioni e nel commercio, rientrano nelle istanze implicite del Comandamento.
Inquadrato nell’ambito antropologico il VII Comandamento vieta qualsiasi forma di schiavitù nei confronti dell’altro, invita alla tutela e alla dignità dell’altro.
Non mancano proiezioni del Comandamento nell’ambito dell’ecologia e di un rispetto fondamentale per la natura, fauna e flora, e per l’ambiente.
Nella morale sociale la Chiesa sceglie il VII Comandamento per rifiutare qualsiasi ideologia totalitaria moderna come il socialismo da una parte e il capitalismo dall’altra, dove la legge del mercato prevale troppo spesso sul diritto al lavoro dei singoli.
Nei rapporti tra le nazioni la disuguaglianza economica e le sproporzioni tra gli Stati costituiscono una violazione sociale di enormi proporzioni.
La scelta di Gesù di evangelizzare i poveri chiama in causa il modo in cui l’opzione della Chiesa a loro favore cerca di colmare la forma indiretta con cui il VII Comandamento è violato. Naturalmente, in questione non è soltanto la povertà materiale, ma anche quella etica, religiosa e sociale. L’accusa che l’apostolo Giacomo rivolge ai ricchi è tra le più violente del Nuovo Testamento, contro una morale sociale che non considera i risvolti concreti del VII Comandamento. La sua protesta si pone in continuità con quella profetica di Amos: “Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre e che voi avete defraudato grida e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore Onnipotente”.
Grazie per la vostra attenzione.
Interventi
Prof. Stefano ZAMAGNI (Economista, Università di Bologna)
Sono veramente lieto di partecipare a quest’incontro e mi complimento con gli organizzatori per la focalizzazione sull’VIII^ Parola – il VII Comandamento nella tradizione cristiana – “Non rubare”. Per ragioni di tempo cercherò di condensare la mia riflessione su alcuni punti o fatti stilizzati che meritano la nostra attenzione.
Anzitutto il “Non furtum facies” è la traduzione latina dell’originale ebraico “Lo Tignòv- Non rubare” come appare in Es 20,15. E’ importante che il “Non rubare” va associato al X Comandamento “Non desiderare la roba d’altri”: non c’è solo un comando a non appropriarsi di ciò che appartiene ad altri, ma addirittura di non desiderarlo. Ecco perché suggerisco di collegare il VII Comandamento con il X: l’uno è complementare all’altro.
Il primo fatto stilizzato: “Non rubare” è il Comandamento più accettato da tutti, ma al tempo stesso quello più trasgredito. Questa osservazione era già di Fra’ Ildefonso – frate francescano della fine del 1700. Non troveremo mai qualcuno che si dichiari a favore del furto: sono tutti d’accordo, eppure – per paradossale che questo possa apparire – il “non rubare” è la violazione più frequente oggi, come ieri, nelle nostre società.
La seconda osservazione puntuale è che se uno sottrae ciò che è di pertinenza del bene comune, questo non viene considerato un furto, o meglio, si preferisce adottare altre parole, ma non quella di furto. Al tempo stesso, se uno si appropria di qualcosa che appartiene ad un altro questo comportamento viene etichettato come furto e addirittura come delitto. Eppure nella Bibbia più il furto è indiretto e camuffato, più è esecrato e condannato. Pensate alla vicenda di Amos, di Isaia. Pensiamo alla vicenda del re Acab che ruba la vigna a Nabot nella storia di Elia. Pensiamo ancora a Geremia che denuncia come ladro il re di Gerusalemme Ioachim.
E’ un punto che merita la nostra attenzione: nel passato il furto era declinato nella versione diretta – io mi approprio di una cosa tua – ma anche in quella indiretta – io mi approprio di qualcosa che è, per natura sua, bene comune, né bene pubblico, né bene privato. Infatti bene pubblico è un bene che appartiene ad una entità che oggi chiamiamo Stato o Ente pubblico, che è di tutti ma non di ciascuno. Come darsi conto di questo slittamento? Come mai nell’epoca contemporanea il furto indiretto è preso di mira molto meno di quello diretto? L’evasore, chi non paga le tasse, non porta via direttamente a me o a voi qualcosa, ma sottrae risorse per il bene comune, quindi l’evasione è una forma di furto indiretto. Difficilmente sentirete accusare l’evasore di latrocinio. Si usano altri termini soprattutto da parte degli economisti. Tornerò tra breve su questo punto.
Una terza osservazione che merita attenzione particolare è quella che riguarda la continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, ma soprattutto la tradizione dei Padri della Chiesa. Vorrei ricordare Ambrogio: “La natura ha generato il diritto comunitario, il furto ha fatto il diritto privato”. E’ una frase terrificante. Ambrogio, Vescovo di Milano, voleva significare che per parlare di furto diretto bisogna prima definire la proprietà privata. Ma la proprietà privata è declinata rispetto al concetto di legittimazione: io mi approprio di qualcosa che legittimamente appartiene a te. Il problema è: come si fa a definire ciò che è legittimo? Senza una precisazione di questo tipo l’imperativo del “non rubare” rischia di rimanere un vago sentimento.
Nella tradizione sia ebraica sia cristiana la proprietà assoluta non esiste. Pensiamo soltanto al fatto che l’ebraismo ha introdotto l’anno sabbatico, le istituzioni giubilari e, per es. la remissione del debito. Se la proprietà privata fosse assoluta come si potrebbe giustificare la remissione del debito? Perché, se ho un credito, devo rimetterlo al mio debitore? Se ciò che ho dato era mio in senso assoluto, non sarei tenuto. Invece non è così. Stessa cosa per Lv 25,23: “Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti”. In questo brano è chiaramente indicata l’idea che la proprietà è a termine, cioè qualcosa di transitorio. Anche nella teologia cristiana – pensiamo a S. Tommaso – la proprietà privata è ammessa e giustificata come remedium al peccato originale, perché serve a valorizzare le risorse, ma non è assoluta. E’ interessante che questa idea transiti dalla tradizione ebraica a quella cristiana. Il Catechismo della Chiesa cattolica par. 2402 dice: “All’inizio Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità °, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano”. Sulla medesima falsariga leggiamo nella Gaudium et Spes n. 69: “L’uomo usando dei beni creati deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri”. Quindi, contrariamente a quanto letture di una certa vulgata hanno lasciato intendere in tempi non molto lontani, c’è una piena continuità tra la tradizione ebraica e quella cristiana su questo punto.
Passo all’altra questione su cui vorrei tornare: come mai – almeno da quando si è affermata la società di mercato nata dalla prima rivoluzione industriale della fine del ‘700 in Inghilterra – così poca attenzione viene dedicata al furto indiretto? Perché è crollato il fondamento del bene comune. Furto indiretto, abbiamo detto, è tutto ciò che si sottrae al fondo che costituisce il bene comune. L’evasione fiscale è un esempio. Un altro esempio è la distruzione ecologico-ambientale: se distruggo l’ambiente è ovvio che non vi sottraggo qualcosa, ma lo sottraggo alla generazione futura. Anche questo è furto perché sottraggo quelle risorse indispensabili alla continuità della vita e ne porteranno il danno le generazioni avvenire.
Come mai si è perso di vista il bene comune? E’ un capovolgimento che si è consumato a partire dall’800, prima in occidente e poi nel resto del mondo, quando la filosofia utilitarista è entrata di forza nel discorso economico, politico e giuridico. L’utilitarismo ha avuto la sua prima applicazione in ambito giuridico e bisogna aspettare alcuni decenni prima che entri e prenda possesso dell’economia. La corrente di pensiero utilitarista ha una radice italiana nella persona di Cesare Beccaria, milanese, persona notevole da tanti punti di vista. E’ uno degli iniziatori del pensiero utilitarista assieme a Helvétius. Bisognerà aspettate J. Bentam, il filosofo inglese, che verso la fine del ‘700 realizzerà la sintesi del pensiero utilitarista.
L’utilitarismo sostituisce al concetto di bene comune il concetto di bene totale. Ancora oggi, se parlate con molti economisti, e chiedete: “che differenza c’è tra bene comune e bene totale?” vi diranno che , più o meno, sono la stessa cosa. E invece no. Il bene totale è figlio dell’utilitarismo, il bene comune invece è figlio di quella tradizione che ha radici antichissime, che comincia con l’ebraismo. Se vogliamo essere seri e preoccuparci del furto indiretto bisogna affrontare questo problema. Fintanto che il principio del bene totale dominerà la scena dell’agire politico ed economico, non ci sarà molto da aspettarsi. Oggi molti segni indicano che quell’impostazione ha – se non gli anni – i decenni contati perché sta facendo acqua da tutte le parti e l’attuale crisi economico-finanziaria è la più chiara ed evidente testimonianza di quanto sto dicendo.
Il bene totale è una “sommatoria” il bene comune è un “prodotto”. Mi avvalgo di questa metafora di tipo aritmetico per farmi capire: che differenza c’è tra una somma e un prodotto? In una somma, anche se qualche addendo viene annullato o scompare, il risultato resta positivo. In un prodotto, anche se un solo fattore viene annullato, l’intero prodotto viene annullato: zero per un milione fa zero! Invece zero più un milione fa un milione. Capite dunque la logica della metafora: nella logica del bene totale è perfettamente ammissibile, anzi, è necessario che, per massimizzare la somma totale delle utilità o dei profitti, qualcuno resti fuori. E’ quello che sta avvenendo oggi. Vi siete mai chiesti perché ci sono i disoccupati? Sono quelli meno produttivi. Se uno è efficiente e ha un’alta produttività le imprese lo vanno a cercare. Ma allora il lavoro c’è solo per i più produttivi, per i più capaci? Nella logica del bene totale la risposta è sì perché il lavoro va dato a chi rende di più, a chi produrrà più valore aggiunto. E cosa ne è di coloro che restano separati dal processo produttivo? La risposta è quella che conosciamo tutti: il welfare state. Coloro che sono emarginati vengono mantenuti in vita con le varie forme di aiuti e servizi alla persona.
Nella logica del bene comune questo non è ammissibile perché anche se un gruppo sociale venisse emarginato l’intero bene della comunità verrebbe annullato: non sono ammissibili dei trade off, tutti devono poter lavorare. Quando S. Francesco nella Regola scrive: “Io voglio che tutti lavorino”, vuol dire anche gli incapaci, anche i portatori di handicap, anche i meno dotati intellettivamente, perché il lavoro è fondativo dell’identità della persona. Ecco perché la società si deve organizzare in maniera tale da garantire a tutti il lavoro.
Si capisce così come cambiano le cose a seconda del punto di partenza che scegliamo: quello del bene totale o quello del bene comune. Si capisce anche perché oggi il furto indiretto non è riconosciuto come furto: perché è furto al bene comune e se io rifiuto il bene comune sottoscrivendo la posizione del bene totale non me ne devo occupare. Tanto è vero che le varie forme di sfruttamento dell’ambiente, del lavoro, delle persone – pensate alle nuove forme di schiavitù, al traffico degli organi umani – quando vengono condannati sotto il profilo giuridico è perché non corrispondono ad un criterio di efficienza e non perché sono la violazione di un diritto umano fondamentale.
Oggi, l’impegno per chi vuole prendere sul serio il VII Comandamento o l’VIII^ Parola nell’originale ebraico è quello di mettersi d’accordo: vogliamo o no reintrodurre nel dibattito pubblico a valenza economica e giuridica il principio del bene comune? Se la risposta è sì, bisogna essere coerenti perché il principio del bene comune non tollera quelle forme di discriminazione di cui ho fatto parola. Ricorderò sempre – mi era accaduto di essere presente – quello che fu l’ultimo discorso in ambito pubblico di Giovanni Paolo II, il 29 novembre del 2004. Pronunciò un discorso fondamentale che non viene mai citato: La discriminazione basata sull’efficienza non è meno disumana della discriminazione basata sulla religione, sull’etnia, sul genere. Una società che consente soltanto ai più dotati di inserirsi e di progredire non è una società a misura d’uomo. E’ importante: se noi non torniamo, come nel passato era stato, al concetto di bene comune non ci sarà molto da aspettarsi. In questa direzione un impegno non può che essere quello di rivedere le regole del gioco, cioè le istituzioni, sia quelle politiche, sia quelle economiche. Se non cambiamo le regole di funzionamento delle istituzioni economiche che oggi sono magna pars nel definire il destino di popolazioni e paesi interi non c’è molto da sperare. Dalla lettura del Comandamento “Non rubare” ricaviamo così anche delle indicazioni di metodo e di azione operativa.
Vorrei chiudere ricordando che nella lingua ebraica c’è una parola che mi ha sempre colpito: tikvà. E’ anche il nome dell’inno nazionale israeliano. Letteralmente vuol dire “speranza”, ma vuol dire anche “corda”, perché la speranza deve essere legata ad una corda, ad una pietra del deserto che viene chiamata “amen” = fede. E’ bello perché sappiamo che nella lingua latina fides – termine che usiamo per dire fede – significa “corda”: la fides era la corda del liuto che doveva essere ben tesa per poter suonare. E’ interessante vedere questo collegamento: la speranza è fondata sulla fede e la fede è una corda. E’ la stessa ragione per cui parliamo di fiducia quando la corda unisce in senso orizzontale una persona all’altra e diventa fede quando la corda è verticale tra l’uomo e la trascendenza. C’è motivo di speranza perché le cose stanno cambiando. Dopo una lunga stagione durante la quale soprattutto i sociologi e i politologi parlavano di secolarizzazione, oggi stiamo assistendo al processo inverso. Si capisce che i tentativi dell’88 e della prima parte del ‘900 di espungere la dimensione del sacro dal dibattito pubblico e dall’agire concreto hanno prodotto disastri e allora ecco perché iniziative come queste, forme di dialogo di un tipo o dell’altro, vanno apprezzate e viste con grande simpatia.
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° Oggi si parla della teoria dei Commons, termine inglese per indicare i beni comuni. Il CCC parla di modo di “gestione” che non può essere né privatistica né pubblicistica, ma comune.
Rav Dr. Riccardo DI SEGNI (Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma)
Buonasera e grazie per questa occasione rinnovata di incontro. In senso metaforico e reale l’ultimo intervento e le ultime parole in particolare hanno pizzicato delle corde a cui sono sensibile. Vorrei riprendere l’immagine sulla parola tikvà che indica la tensione, la speranza e anche il filo. Ciò che è comune è la tensione, essere tesi verso qualcosa: la speranza è come il filo che è teso, è ciò che ci fa tendere. Proseguendo su questo cammino, è interessante un altro parallelo linguistico, perché questa radice compare già nelle prime righe del libro della Genesi quando si parla delle acque che devono tendere verso un unico posto e si mostri l’asciutto: forse la radice latina “acqua” è collegata con l’antica radice semitica del tendere. Quindi anche l’acqua e non soltanto la fede sono collegate.
Noi non pensiamo, nell’immediatezza delle cose, quanto è quotidiana la tentazione al furto. Nelle nostre sinagoghe siamo pieni di libri – Pentateuco, libri di preghiere perché i nostri formulari di preghiera sono abbastanza complicati e c’è bisogno di seguirli con dei libri… fanno sempre venire all’orante la tentazione di portarseli via. In una sinagoga romana sul timbro non c’è il nome della sinagoga, ma “questo libro è stato rubato nella sinagoga di…” Questo per dire che esiste non soltanto il furto indiretto, ma anche quello diretto alle cose sacre. Però i maestri dicono molto pietosamente che il furto del libro, se è fatto a scopo di studio è molto più tollerabile del furto del denaro.
Proseguendo su questa linea un po’ ironica, direi che sono grato che si continui in questo contesto una discussione sui Dieci Comandamenti, anche perché siamo stati bombardati all’inizio di questo mese da una serie di considerazioni su un grande quotidiano a diffusione nazionale, scritte da un ex-direttore di un grande quotidiano°° che ha voluto dare la sua personale interpretazione di quello che sta succedendo nel mondo della fede grazie al nuovo Pontefice e ha messo l’indice sul Dio vendicativo e di giustizia che si rivela al mondo con questi Dieci Comandamenti. A suo dire sono soltanto dei doveri e non riconoscono dei diritti, escludono le donne che sono vicine agli animali (!) mentre la vera fede è quella che non soltanto parla del perdono, ma elimina il peccato, quindi soltanto fare una scelta è già una cosa etica.
Tutto questo lascia veramente disorientati e bisogna tornare alle radici, all’essenza di ciò che è comune e condiviso dalle nostre fedi e che trova nei Dieci Comandamenti o le Dieci Parole un riferimento essenziale. Il diritto nel linguaggio biblico non è negato ma nasce dalla forza del divieto. E’ la forza del “non uccidere” che stabilisce il diritto alla vita, è la forza del “non rubare” che stabilisce una serie di diritti e doveri fondamentali che sono uguali per l’uomo e per la donna: alla donna non è consentito rubare o uccidere… Ecco quindi che parlare di questo argomento è molto, molto importante, perché rimette le cose nell’ordine giusto.
Problema: di che cosa parla questa Parola, questo divieto? Esistono diversi tipi di furto. Tecnicamente il furto – questo lo spiega tutta l’esegesi rabbinica – si distingue dalla rapina. Il furto è fatto sottraendo la proprietà ad incoscienza della vittima, mentre se viene compiuto di fronte ai suoi occhi… lo scippo non è un furto, ma un atto violento di sottrazione di proprietà. Quando parliamo di questo “Non Rubare” dunque cosa dobbiamo intendere? Una prima riflessione dei maestri si riferisce al fatto del contesto. Nei Dieci Comandamenti c’è una successione: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare … “Non uccidere” è punito con la pena di morte, almeno teoricamente; “Non commettere adulterio” è punito con la pena di morte che colpisce l’adultero e l’adultera, quindi anche la donna… benché vicina all’animale come direbbe quel famoso direttore, è punita in questo modo. Ma com’è possibile immaginare la pena di morte per il furto? Di furti ce ne sono tanti e quel che dicono i maestri è che in quel contesto si parla di un tipo particolare di furto: il furto della persona – che sia un adulto o un bambino, un uomo o una donna – che viene privata della sua libertà, asservita e venduta. Il reato si configura quando ci sono questi tre passi ed è punito con la pena di morte. La tradizione esegetica dice che tecnicamente l’VIII^ Parola a questo si riferisce. Altri commenti, non strettamente tecnici, ma genericamente esegetici dicono che il paradigma del furto è molto esteso e comprende tante accezioni che vanno dal furto della buona fede nel senso dell’inganno – anche la parola ingannevole è un furto perché è un furto di credibilità – alla cosa più grave che è il furto della persona. In mezzo ci sono tante altre specie di furto, specificamente dettagliate in tante normative. Ciascuna di queste specie di furto è accompagnata da una sanzione differente: per es. il furto della proprietà terriera attraverso la falsificazione dei documenti di proprietà viene sanzionato con la restituzione del maltolto, laddove il furto di denaro viene sanzionato con la restituzione del doppio di quanto è stato rubato; il furto di animali, l’abigeato, le sanzioni moltiplicano per quattro o per cinque: quattro pecore per una pecora rubata, cinque buoi per un bue rubato. Perché per una pecora quattro e per un bue cinque? I maestri entrano nelle sottigliezze e dicono che per rubare una pecora è possibile caricarsela sulle spalle, mentre il bue camminerà da solo… quindi il ladro faticherà di meno… Il bue, a differenza della pecora, lavora e il suo furto comporta sottrazione di forza lavoro. Quindi il danno è maggiore.
Abbiamo dunque un’ampia accezione di significati. Dal punto di vista linguistico viene notato e proposto che la radice della parola furto è vicina – come suono – a quella che significa “ala, la cosa che sta dietro ed è marginale”: il verbo rubare avrebbe quindi il significato di mettere qualcosa da parte, nasconderla, metterla a lato, sottrarla alla vista diretta.
E’ interessante riflettere anche sulle accezioni del termine “rubare” nel testo biblico. Se guardiamo alla frequenza della radice di questa parola, notiamo una sua concentrazione e di casistiche intorno ad essa in due capitoli affiancati della Genesi, 30 e 31, che riguardano la storia del patriarca Giacobbe. Quando faceva il pastore per il suocero Labano, se gli veniva sottratta una pecora che custodiva la ripagava. Giacobbe si lamenta dicendo di essere stato sfruttato (è il passivo del rubare) di giorno e di notte. La moglie di Giacobbe commette un furto: sottrae di nascosto i terafim, gli idoli familiari, al padre e non glielo dice, glieli nasconde … è un episodio abbastanza oscuro. I maestri tengono a giustificare la matriarca dicendo che ha agito in questo modo per sottrarre l’idolatria al padre, ma è una spiegazione di tipo misericordioso… Quando poi si passa ai figli di Giacobbe, troviamo il dramma del furto della persona.
Nella riflessione morale, esegetica dell’ebraismo il popolo ebraico si fa l’autoanalisi delle colpe. Al popolo ebraico vengono addossate nel corso della storia ogni tipo possibile di colpe immaginabili. Il popolo ebraico quando fa l’autocritica si rappresenta con due colpe fondamentali: quella del vitello d’oro relativa al rapporto con Dio, il dramma del tradimento nei confronti di Dio, e quella della vendita di Joseph come schiavo. Abbiamo qui i prototipi di colpa fondamentale: tradimento verso Dio e tradimento verso il fratello.
E’ interessante anche il fatto che quando si parla del reato di asservimento in schiavitù e vendita di una persona, rappresentato in Dt 24, 7, si parla del fratello ebreo che non può essere venduto. La domanda è: il reato si configura solo per il correligionario – concittadino o è più esteso? L’esegesi discute su questo. Maestri importanti ritengono che il reato riguardi tutti quanti. E’ un discorso molto importante e trasgredito da tutte le religioni perché mercanzia di schiavi l’anno fatta ebrei, cristiani nelle varie accezioni, musulmani, ma a voler applicare questa norma tradizionale non c’è nulla di più proibito di questo. Anche se oggi denunciamo nuove forme di schiavitù dobbiamo rendere atto che la civiltà ha fatto enormi progressi arrivando alla abolizione della schiavitù.
Vorrei introdurre una riflessione partendo da un episodio talmudico interessante, sia perché è divertente, sia per le sue implicazioni. Si tratta di un episodio narrato nel primo trattato del Talmud, Berachot 5b. E’ una storia che riguarda Rav Huna, maestro molto importante vissuto quasi ottant’anni, in Babilonia, capo dell’Accademia di Sura, persona estremamente autorevole non solo per la dottrina ma anche come esempio di comportamento morale corretto. Il fatto di essere un modello non salvava maestri come lui dalle critiche, anzi li esponeva ad esse. Malgrado fosse di famiglia abbastanza nobile era stato in gioventù piuttosto povero, ma lavorando era diventato ricco. Un giorno gli capitò una sciagura economica: produceva del vino e si racconta che 400 suoi otri – una cosa enorme! – diventarono aceto. Mentre era tutto preoccupato per gestire questa situazione vennero a trovarlo alcuni colleghi che gli dissero: “Cerca di pentirti”. Il ragionamento era: sei stato punito per qualcosa di scorretto che hai fatto. La sua reazione fu: “Ma come vi permettete di sospettarmi?”. E la risposta dei maestri: “Come ti permetti tu di sospettare Colui che è il Giudice corretto?”. Il Giudice corretto è Dio: se manda una punizione evidentemente lo fa a ragione. Rav Huna capisce allora che qualcosa c’era e chiese quale notizia stesse circolando, quali fossero le chiacchiere… “La cosa di cui sei accusato – gli risposero – è che tu non dai al tuo mezzadro una determinata parte del raccolto”. La regola infatti era che con il mezzadro non soltanto doveva spartire il vino, ma anche l’uva raccolta. La risposta di Rav Huna fu: “Ma il mezzadro se la ruba già per conto suo!”. E i maestri risposero con un proverbio: chi ruba da un ladro assapora il sapore del furto. Rav Huna imparò la morale e da quel momento stabilì delle regole precise per la divisione dei prodotti col mezzadro che comunque non era un galantuomo. Il racconto si chiude in bellezza … ci sono due finali … in una l’aceto si ritrasforma in vino, nell’altra sul mercato improvvisamente le azioni dell’aceto crescono! Questa storia suggestiva serve a dire che accanto alla parte giuridica relativa alle regole sul furto, la tradizione rabbinica insiste sugli aspetti morali dai quali nessuno è esentato.
Il messaggio fondamentale che viene dalla Bibbia è stato già esposto nella precedente relazione. Il divieto del furto serve ad affermare il diritto alla proprietà, ma questo diritto – come ci ha detto il prof. Zamagni – non è un diritto assoluto: siamo soltanto degli affidatari dei beni. I maestri dicono – ed è per questo che all’inizio dell’anno liturgico, nel capodanno e nel giorno di Kippur, facciamo una preghiera speciale per il sostentamento – che in cielo decidono quanto tu potrai avere e il tuo bilancio è già approvato. La nostra vita economica è fondamentale: nell’ebraismo non c’è esaltazione della povertà. Bisogna distinguere tra ricchezza e disonestà, cose che non necessariamente vanno insieme. Comunque il tema fondamentale è quello della differenza tra l’avere e l’essere: la crescita della persona non è in quanto ha ma in quanto è.
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°°Nota del redattore: si fa riferimento a La Repubblica e a Eugenio Scalfari