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GIORNATA DI RIFLESSIONE EBRAICO-CRISTIANA

GIORNATA DI RIFLESSIONE EBRAICO-CRISTIANA

Pontificia Università Lateranense, 16 gennaio 2014  

L’Ottava Parola: “Lo Tignòv – Non Rubare” (Esodo 20,15)

Saluto
 

S.E. Mons. Enrico DAL COVOLO (Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense)

 
Saluto cordialmente tutti voi qui presenti, in modo particolare l’Ecc.mo Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, il Dr. Riccardo Di Segni. Poi il Prof. Stefano Zamagni, dell’Università di Bologna e il Presidente di questo Simposio, Mons. Marco Gnavi, Incaricato Diocesano per l’Ecumenismo e il Dialogo.
Procedendo nei nostri incontri annuali siamo giunti a commentare l’VIII^ Parola di Es 20,15, “Non rubare”. A prima vista, con l’ingiunzione negativa il settimo Comandamento sembra orientare l’attenzione soltanto verso i beni e le proprietà private del prossimo restringendone la portata. In realtà il Comandamento riportato nelle due redazioni del Decalogo – quella dell’Esodo e quella del Deuteronomio – non specifica esattamente l’oggetto né il destinatario e tanto meno allude solo al furto, ma estende gli orizzonti di attuazione che coinvolgono i diversi ambiti delle relazioni umane, sociali e religiose. Lo stesso comandamento è attualizzato, insieme agli altri comandamenti, nel Nuovo Testamento, durante il dialogo tra Gesù e il giovane ricco e a proposito dell’adempimento dei comandamenti che si riassume nel precetto “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.
Per cogliere le ampie prospettive del Comandamento vi invito a soffermare la vostra attenzione su quel celebre passo in cui Giovanni Crisostomo interpreta la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone: non condividere con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo, sono dei poveri. Da studioso dei Padri posso dirvi che parole di questo genere le ritroviamo lungo i secoli. Sono due le linee di tendenza nei Padri della Chiesa: da una parte la linea che insiste sulla povertà radicale, l’altra che insiste sulla condivisione. Ma in ciascuna delle due linee trovate come punto di riferimento l’imprescindibile necessità di condividere con i poveri. Si può osservare che l’asserzione del Crisostomo estende gli orizzonti del VII Comandamento e coinvolge in maniera globale le relazioni tra il ricco e il povero, tra i diversi gruppi sociali, tra le nazioni ricche e povere. Per questo, a partire dalla Costituzione Conciliare Gaudium et Spes fino alla Centesimus Annus, alla Sollecitudo Rei Socialis e alla Laborem Exercens di Giovanni Paolo II, fino alla Caritas in Veritate di Benedetto XVI e ora alla Evangelii Gaudium di Papa Francesco, il VII Comandamento è interpretato dalla tradizione della Chiesa nei suoi risvolti non soltanto negativi e della proprietà privata da rispettare, bensì anche in quelli positivi del diritto del lavoro, dell’integrazione sociale, del superamento delle piaghe sociali vecchie e nuove. Si pensi in particolare alle implicazioni del comandamento circa la disoccupazione delle giovani generazioni che assume oggi proporzioni preoccupanti. Così il Comandamento svolge una funzione non soltanto negativa, bensì positiva, che implica il rispetto, la tutela e la garanzia di quanto è dell’altro e merita di essere conservato e valorizzato. Lo stesso Comandamento veicola alcune virtù basilari che valgono sia per l’Ebraismo sia per il Cristianesimo. Segnaliamo soprattutto la solidarietà nei confronti dell’altro a prescindere dalla sua origine e dalla sua professione religiosa; la giustizia sociale con le sue diverse espressioni, sia sul versante distributivo sia su quello commutativo; la temperanza e la moderazione nell’uso personale di beni.
Pertanto restringere il VII Comandamento al furto dei beni personali significa ridurne la portata e alla fine fraintenderne le modalità di attuazione. “Non rubare” coinvolge non solo il furto, ma anche la frode e la corruzione nelle loro diverse forme, da quella fiscale a quella dei beni pubblici e privati. Anche la speculazione economica nelle sue diverse espressioni e nel commercio, rientrano nelle istanze implicite del Comandamento.
Inquadrato nell’ambito antropologico il VII Comandamento vieta qualsiasi forma di schiavitù nei confronti dell’altro, invita alla tutela e alla dignità dell’altro.
Non mancano proiezioni del Comandamento nell’ambito dell’ecologia e di un rispetto fondamentale per la natura, fauna e flora, e per l’ambiente.
Nella morale sociale la Chiesa sceglie il VII Comandamento per rifiutare qualsiasi ideologia totalitaria moderna come il socialismo da una parte e il capitalismo dall’altra, dove la legge del mercato prevale troppo spesso sul diritto al lavoro dei singoli.
Nei rapporti tra le nazioni la disuguaglianza economica e le sproporzioni tra gli Stati costituiscono una violazione sociale di enormi proporzioni.
La scelta di Gesù di evangelizzare i poveri chiama in causa il modo in cui l’opzione della Chiesa a loro favore cerca di colmare la forma indiretta con cui il VII Comandamento è violato. Naturalmente, in questione non è soltanto la povertà materiale, ma anche quella etica, religiosa e sociale. L’accusa che l’apostolo Giacomo rivolge ai ricchi è tra le più violente del Nuovo Testamento, contro una morale sociale che non considera i risvolti concreti del VII Comandamento. La sua protesta si pone in continuità con quella profetica di Amos: “Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre e che voi avete defraudato grida e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del Signore Onnipotente”.
Grazie per la vostra attenzione.



Interventi

Prof. Stefano ZAMAGNI (Economista, Università di Bologna)

Sono veramente lieto di partecipare a quest’incontro e mi complimento con gli organizzatori per la focalizzazione sull’VIII^ Parola – il VII Comandamento nella tradizione cristiana – “Non rubare”. Per ragioni di tempo cercherò di condensare la mia riflessione su alcuni punti o fatti stilizzati che meritano la nostra attenzione.
Anzitutto il “Non furtum facies” è la traduzione latina dell’originale ebraico “Lo Tignòv- Non rubare”  come appare in Es 20,15. E’ importante che il “Non rubare” va associato al X Comandamento “Non desiderare la roba d’altri”: non c’è solo un comando a non appropriarsi di ciò che appartiene ad altri, ma addirittura di non desiderarlo. Ecco perché suggerisco di collegare il VII Comandamento con il X: l’uno è complementare all’altro.
Il primo fatto stilizzato: “Non rubare” è il Comandamento più accettato da tutti, ma al tempo stesso quello più trasgredito. Questa osservazione era già di Fra’ Ildefonso – frate francescano della fine del 1700. Non troveremo mai qualcuno che si dichiari a favore del furto: sono tutti d’accordo, eppure – per paradossale che questo possa apparire – il “non rubare” è la violazione più frequente oggi, come ieri, nelle nostre società.
La seconda osservazione puntuale è che se uno sottrae ciò che è di pertinenza del bene comune, questo non viene considerato un furto, o meglio, si preferisce adottare altre parole, ma non quella di furto. Al tempo stesso, se uno si appropria di qualcosa che appartiene ad un altro questo comportamento viene etichettato come furto e addirittura come delitto. Eppure nella Bibbia più il furto è indiretto e camuffato, più è esecrato e condannato. Pensate alla vicenda di Amos, di Isaia. Pensiamo alla vicenda del re Acab che ruba la vigna a Nabot nella storia di Elia. Pensiamo ancora a Geremia che denuncia come ladro il re di Gerusalemme Ioachim.
E’ un punto che merita la nostra attenzione: nel passato il furto era declinato nella versione diretta – io mi approprio di una cosa tua – ma anche in quella indiretta – io mi approprio di qualcosa che è, per natura sua, bene comune, né bene pubblico, né bene privato. Infatti bene pubblico è un bene che appartiene ad una entità che oggi chiamiamo Stato o Ente pubblico, che è di tutti ma non di ciascuno. Come darsi conto di questo slittamento? Come mai nell’epoca contemporanea il furto indiretto è preso di mira molto meno di quello diretto? L’evasore, chi non paga le tasse, non porta via direttamente a me o a voi qualcosa, ma sottrae risorse per il bene comune, quindi l’evasione è una forma di furto indiretto. Difficilmente sentirete accusare l’evasore di latrocinio. Si usano altri termini soprattutto da parte degli economisti. Tornerò tra breve su questo punto.
Una terza osservazione che merita attenzione particolare è quella che riguarda la continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, ma soprattutto la tradizione dei Padri della Chiesa. Vorrei ricordare Ambrogio: “La natura ha generato il diritto comunitario, il furto ha fatto il diritto privato”. E’ una frase terrificante. Ambrogio, Vescovo di Milano, voleva significare che per parlare di furto diretto bisogna prima definire la proprietà privata. Ma la proprietà privata è declinata rispetto al concetto di legittimazione: io mi approprio di qualcosa che legittimamente appartiene a te. Il problema è: come si fa a definire ciò che è legittimo? Senza una precisazione di questo tipo l’imperativo del “non rubare” rischia di rimanere un vago sentimento.
Nella tradizione sia ebraica sia cristiana la proprietà assoluta non esiste. Pensiamo soltanto al fatto che l’ebraismo ha introdotto l’anno sabbatico, le istituzioni giubilari e, per es. la remissione del debito. Se la proprietà privata fosse assoluta come si potrebbe giustificare la remissione del debito? Perché, se ho un credito, devo rimetterlo al mio debitore? Se ciò che ho dato era mio in senso assoluto, non sarei tenuto. Invece non è così. Stessa cosa per Lv 25,23: “Le terre non si potranno vendere per sempre perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti”. In questo brano è chiaramente indicata l’idea che la proprietà è a termine, cioè qualcosa di transitorio. Anche nella teologia cristiana – pensiamo a S. Tommaso – la proprietà privata è ammessa e giustificata come remedium al peccato originale, perché serve a valorizzare le risorse, ma non è assoluta. E’ interessante che questa idea transiti dalla tradizione ebraica a quella cristiana. Il Catechismo della Chiesa cattolica par. 2402 dice: “All’inizio Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità °, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano”. Sulla medesima falsariga leggiamo nella Gaudium et Spes n. 69: “L’uomo usando dei beni creati deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni nel senso che possono giovare non unicamente a lui ma anche agli altri”. Quindi, contrariamente a quanto letture di una certa vulgata hanno lasciato intendere in tempi non molto lontani, c’è una piena continuità tra la tradizione ebraica e quella cristiana su questo punto.
Passo all’altra questione su cui vorrei tornare: come mai – almeno da quando si è affermata la società di mercato nata dalla prima rivoluzione industriale della fine del ‘700 in Inghilterra – così poca attenzione viene dedicata al furto indiretto? Perché è crollato il fondamento del bene comune. Furto indiretto, abbiamo detto, è tutto ciò che si sottrae al fondo che costituisce il bene comune. L’evasione fiscale è un esempio. Un altro esempio è la distruzione ecologico-ambientale: se distruggo l’ambiente è ovvio che non vi sottraggo qualcosa, ma lo sottraggo alla generazione futura. Anche questo è furto perché sottraggo quelle risorse indispensabili alla continuità della vita e ne porteranno il danno le generazioni avvenire.

Come mai si è perso di vista il bene comune? E’ un capovolgimento che si è consumato a partire dall’800, prima in occidente e poi nel resto del mondo, quando la filosofia utilitarista è entrata di forza nel discorso economico, politico e giuridico. L’utilitarismo ha avuto la sua prima applicazione in ambito giuridico e bisogna aspettare alcuni decenni prima che entri e prenda possesso dell’economia. La corrente di pensiero utilitarista ha una radice italiana nella persona di Cesare Beccaria, milanese, persona notevole da tanti punti di vista. E’ uno degli iniziatori del pensiero utilitarista assieme a Helvétius. Bisognerà aspettate J. Bentam, il filosofo inglese, che verso la fine del ‘700 realizzerà la sintesi del pensiero utilitarista.

L’utilitarismo sostituisce al concetto di bene comune il concetto di bene totale. Ancora oggi, se parlate con molti economisti, e chiedete: “che differenza c’è tra bene comune e bene totale?” vi diranno che , più o meno, sono la stessa cosa. E invece no. Il bene totale è figlio dell’utilitarismo, il bene comune invece è figlio di quella tradizione che ha radici antichissime, che comincia con l’ebraismo. Se vogliamo essere seri e preoccuparci del furto indiretto bisogna affrontare questo problema. Fintanto che il principio del bene totale dominerà la scena dell’agire politico ed economico, non ci sarà molto da aspettarsi. Oggi molti segni indicano che quell’impostazione ha – se non gli anni – i decenni contati perché sta facendo acqua da tutte le parti e l’attuale crisi economico-finanziaria è la più chiara ed evidente testimonianza di quanto sto dicendo.

Il bene totale è una “sommatoria” il bene comune è un “prodotto”. Mi avvalgo di questa metafora di tipo aritmetico per farmi capire: che differenza c’è tra una somma e un prodotto? In una somma, anche se qualche addendo viene annullato o scompare, il risultato resta positivo. In un prodotto, anche se un solo fattore viene annullato, l’intero prodotto viene annullato: zero per un milione fa zero! Invece zero più un milione fa un milione. Capite dunque la logica della metafora: nella logica del bene totale è perfettamente ammissibile, anzi, è necessario che, per massimizzare la somma totale delle utilità o dei profitti, qualcuno resti fuori. E’ quello che sta avvenendo oggi. Vi siete mai chiesti perché ci sono i disoccupati? Sono quelli meno produttivi. Se uno è efficiente e ha un’alta produttività le imprese lo vanno a cercare. Ma allora il lavoro c’è solo per i più produttivi, per i più capaci? Nella logica del bene totale la risposta è sì perché il lavoro va dato a chi rende di più, a chi produrrà più valore aggiunto. E cosa ne è di coloro che restano separati dal processo produttivo? La risposta è quella che conosciamo tutti: il welfare state. Coloro che sono emarginati vengono mantenuti in vita con le varie forme di aiuti e servizi alla persona.
Nella logica del bene comune questo non è ammissibile perché anche se un gruppo sociale venisse emarginato l’intero bene della comunità verrebbe annullato: non sono ammissibili dei trade off, tutti devono poter lavorare. Quando S. Francesco nella Regola scrive: “Io voglio che tutti lavorino”, vuol dire anche gli incapaci, anche i portatori di handicap, anche i meno dotati intellettivamente, perché il lavoro è fondativo dell’identità della persona. Ecco perché la società si deve organizzare in maniera tale da garantire a tutti il lavoro.
Si capisce così come cambiano le cose a seconda del punto di partenza che scegliamo: quello del bene totale o quello del bene comune. Si capisce anche perché oggi il furto indiretto non è riconosciuto come furto: perché è furto al bene comune e se io rifiuto il bene comune sottoscrivendo la posizione del bene totale non me ne devo occupare. Tanto è vero che le varie forme di sfruttamento dell’ambiente, del lavoro, delle persone – pensate alle nuove forme di schiavitù, al traffico degli organi umani – quando vengono condannati sotto il profilo giuridico è perché non corrispondono ad un criterio di efficienza e non perché sono la violazione di un diritto umano fondamentale.

Oggi, l’impegno per chi vuole prendere sul serio il VII Comandamento o l’VIII^ Parola nell’originale ebraico è quello di mettersi d’accordo: vogliamo o no reintrodurre nel dibattito pubblico a valenza economica e giuridica il principio del bene comune? Se la risposta è sì, bisogna essere coerenti perché il principio del bene comune non tollera quelle forme di discriminazione di cui ho fatto parola. Ricorderò sempre – mi era accaduto di essere presente – quello che fu l’ultimo discorso in ambito pubblico di Giovanni Paolo II, il 29 novembre del 2004. Pronunciò un discorso fondamentale che non viene mai citato: La discriminazione basata sull’efficienza non è meno disumana della discriminazione basata sulla religione, sull’etnia, sul genere. Una società che consente soltanto ai più dotati di inserirsi e di progredire non è una società a misura d’uomo. E’ importante: se noi non torniamo, come nel passato era stato, al concetto di bene comune non ci sarà molto da aspettarsi. In questa direzione un impegno non può che essere quello di rivedere le regole del gioco, cioè le istituzioni, sia quelle politiche, sia quelle economiche. Se non cambiamo le regole di funzionamento delle istituzioni economiche che oggi sono magna pars nel definire il destino di popolazioni e paesi interi non c’è molto da sperare. Dalla lettura del Comandamento “Non rubare” ricaviamo così anche delle indicazioni di metodo e di azione operativa.
Vorrei chiudere ricordando che nella lingua ebraica c’è una parola che mi ha sempre colpito: tikvà. E’ anche il nome dell’inno nazionale israeliano. Letteralmente vuol dire “speranza”, ma vuol dire anche “corda”, perché la speranza deve essere legata ad una corda, ad una pietra del deserto che viene chiamata “amen” = fede. E’ bello perché sappiamo che nella lingua latina fides – termine che usiamo per dire fede – significa “corda”: la fides era la corda del liuto che doveva essere ben tesa per poter suonare. E’ interessante vedere questo collegamento: la speranza è fondata sulla fede e la fede è una corda. E’ la stessa ragione per cui parliamo di fiducia quando la corda unisce in senso orizzontale una persona all’altra e diventa fede quando la corda è verticale tra l’uomo e la trascendenza. C’è motivo di speranza perché le cose stanno cambiando. Dopo una lunga stagione durante la quale soprattutto i sociologi e i politologi parlavano di secolarizzazione, oggi stiamo assistendo al processo inverso. Si capisce che i tentativi dell’88 e della prima parte del ‘900 di espungere la dimensione del sacro dal dibattito pubblico e dall’agire concreto hanno prodotto disastri e allora ecco perché iniziative come queste, forme di dialogo di un tipo o dell’altro, vanno apprezzate e viste con grande simpatia. 
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° Oggi si parla della teoria dei Commons, termine inglese per indicare i beni comuni. Il CCC parla di modo di “gestione” che non può essere né privatistica né pubblicistica, ma comune.


Rav Dr. Riccardo DI SEGNI (Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma)

Buonasera e grazie per questa occasione rinnovata di incontro. In senso metaforico e reale l’ultimo intervento e le ultime parole in particolare hanno pizzicato delle corde a cui sono sensibile. Vorrei riprendere l’immagine sulla parola tikvà che indica la tensione, la speranza e anche il filo. Ciò che è comune è la tensione, essere tesi verso qualcosa: la speranza è come il filo che è teso, è ciò che ci fa tendere. Proseguendo su questo cammino, è interessante un altro parallelo linguistico, perché questa radice compare già nelle prime righe del libro della Genesi quando si parla delle acque che devono tendere verso un unico posto e si mostri l’asciutto: forse la radice latina “acqua” è collegata con l’antica radice semitica del tendere. Quindi anche l’acqua e non soltanto la fede sono collegate.
Noi non pensiamo, nell’immediatezza delle cose, quanto è quotidiana la tentazione al furto. Nelle nostre sinagoghe siamo pieni di libri – Pentateuco, libri di preghiere perché i nostri formulari di preghiera sono abbastanza complicati e c’è bisogno di seguirli con dei libri… fanno sempre venire all’orante la tentazione di portarseli via. In una sinagoga romana sul timbro non c’è il nome della sinagoga, ma “questo libro è stato rubato nella sinagoga di…” Questo per dire che esiste non soltanto il furto indiretto, ma anche quello diretto alle cose sacre. Però i maestri dicono molto pietosamente che il furto del libro, se è fatto a scopo di studio è molto più tollerabile del furto del denaro.
Proseguendo su questa linea un po’ ironica, direi che sono grato che si continui in questo contesto una discussione sui Dieci Comandamenti, anche perché siamo stati bombardati all’inizio di questo mese da una serie di considerazioni su un grande quotidiano a diffusione nazionale, scritte da un ex-direttore di un grande quotidiano°° che ha voluto dare la sua personale interpretazione di quello che sta succedendo nel mondo della fede grazie al nuovo Pontefice e ha messo l’indice sul Dio vendicativo e di giustizia che si rivela al mondo con questi Dieci Comandamenti. A suo dire sono soltanto dei doveri e non riconoscono dei diritti, escludono le donne che sono vicine agli animali (!) mentre la vera fede è quella che non soltanto parla del perdono, ma elimina il peccato, quindi soltanto fare una scelta è già una cosa etica.

Tutto questo lascia veramente disorientati e bisogna tornare alle radici, all’essenza di ciò che è comune e condiviso dalle nostre fedi e che trova nei Dieci Comandamenti o le Dieci Parole un riferimento essenziale. Il diritto nel linguaggio biblico non è negato ma nasce dalla forza del divieto. E’ la forza del “non uccidere” che stabilisce il diritto alla vita, è la forza del “non rubare” che stabilisce una serie di diritti e doveri fondamentali che sono uguali per l’uomo e per la donna: alla donna non è consentito rubare o uccidere… Ecco quindi che parlare di questo argomento è molto, molto importante, perché rimette le cose nell’ordine giusto.
Problema: di che cosa parla questa Parola, questo divieto? Esistono diversi tipi di furto. Tecnicamente il furto – questo lo spiega tutta l’esegesi rabbinica – si distingue dalla rapina. Il furto è fatto sottraendo la proprietà ad incoscienza della vittima, mentre se viene compiuto di fronte ai suoi occhi… lo scippo non è un furto, ma un atto violento di sottrazione di proprietà. Quando parliamo di questo “Non Rubare” dunque cosa dobbiamo intendere? Una prima riflessione dei maestri si riferisce al fatto del contesto. Nei Dieci Comandamenti c’è una successione: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare … “Non uccidere” è punito con la pena di morte, almeno teoricamente; “Non commettere adulterio” è punito con la pena di morte che colpisce l’adultero e l’adultera, quindi anche la donna… benché vicina all’animale come direbbe quel famoso direttore, è punita in questo modo. Ma com’è possibile immaginare la pena di morte per il furto? Di furti ce ne sono tanti e quel che dicono i maestri è che in quel contesto si parla di un tipo particolare di furto: il furto della persona – che sia un adulto o un bambino, un uomo o una donna – che viene privata della sua libertà, asservita e venduta. Il reato si configura quando ci sono questi tre passi ed è punito con la pena di morte. La tradizione esegetica dice che tecnicamente l’VIII^ Parola a questo si riferisce. Altri commenti, non strettamente tecnici, ma genericamente esegetici dicono che il paradigma del furto è molto esteso e comprende tante accezioni che vanno dal furto della buona fede nel senso dell’inganno – anche la parola ingannevole è un furto perché è un furto di credibilità – alla cosa più grave che è il furto della persona. In mezzo ci sono tante altre specie di furto, specificamente dettagliate in tante normative. Ciascuna di queste specie di furto è accompagnata da una sanzione differente: per es. il furto della proprietà terriera attraverso la falsificazione dei documenti di proprietà viene sanzionato con la restituzione del maltolto, laddove il furto di denaro viene sanzionato con la restituzione del doppio di quanto è stato rubato; il furto di animali, l’abigeato, le sanzioni moltiplicano per quattro o per cinque: quattro pecore per una pecora rubata, cinque buoi per un bue rubato. Perché per una pecora quattro e per un bue cinque? I maestri entrano nelle sottigliezze e dicono che per rubare una pecora è possibile caricarsela sulle spalle, mentre il bue camminerà da solo… quindi il ladro faticherà di meno… Il bue, a differenza della pecora, lavora e il suo furto comporta sottrazione di forza lavoro. Quindi il danno è maggiore.

Abbiamo dunque un’ampia accezione di significati. Dal punto di vista linguistico viene notato e proposto che la radice della parola furto è vicina – come suono – a quella che significa “ala, la cosa che sta dietro ed è marginale”: il verbo rubare avrebbe quindi il significato di mettere qualcosa da parte, nasconderla, metterla a lato, sottrarla alla vista diretta.
E’ interessante riflettere anche sulle accezioni del termine “rubare” nel testo biblico. Se guardiamo alla frequenza della radice di questa parola, notiamo una sua concentrazione e di casistiche intorno ad essa in due capitoli affiancati della Genesi, 30 e 31, che riguardano la storia del patriarca Giacobbe. Quando faceva il pastore per il suocero Labano, se gli veniva sottratta una pecora che custodiva la ripagava. Giacobbe si lamenta dicendo di essere stato sfruttato (è il passivo del rubare) di giorno e di notte. La moglie di Giacobbe commette un furto: sottrae di nascosto i terafim, gli idoli familiari, al padre e non glielo dice, glieli nasconde … è un episodio abbastanza oscuro. I maestri tengono a giustificare la matriarca dicendo che ha agito in questo modo per sottrarre l’idolatria al padre, ma è una spiegazione di tipo misericordioso… Quando poi si passa ai figli di Giacobbe, troviamo il dramma del furto della persona.
Nella riflessione morale, esegetica dell’ebraismo il popolo ebraico si fa l’autoanalisi delle colpe. Al popolo ebraico vengono addossate nel corso della storia ogni tipo possibile di colpe immaginabili. Il popolo ebraico quando fa l’autocritica si rappresenta con due colpe fondamentali: quella del vitello d’oro relativa al rapporto con Dio, il dramma del tradimento nei confronti di Dio, e quella della vendita di Joseph come schiavo. Abbiamo qui i prototipi di colpa fondamentale: tradimento verso Dio e tradimento verso il fratello.
E’ interessante anche il fatto che quando si parla del reato di asservimento in schiavitù e vendita di una persona, rappresentato in Dt 24, 7, si parla del fratello ebreo che non può essere venduto. La domanda è: il reato si configura solo per il correligionario – concittadino o è più esteso? L’esegesi discute su questo. Maestri importanti ritengono che il reato riguardi tutti quanti. E’ un discorso molto importante e trasgredito da tutte le religioni perché mercanzia di schiavi l’anno fatta ebrei, cristiani nelle varie accezioni, musulmani, ma a voler applicare questa norma tradizionale non c’è nulla di più proibito di questo. Anche se oggi denunciamo nuove forme di schiavitù dobbiamo rendere atto che la civiltà ha fatto enormi progressi arrivando alla abolizione della schiavitù.

Vorrei introdurre una riflessione partendo da un episodio talmudico interessante, sia perché è divertente, sia per le sue implicazioni. Si tratta di un episodio narrato nel primo trattato del Talmud, Berachot 5b. E’ una storia che riguarda Rav Huna, maestro molto importante vissuto quasi ottant’anni, in Babilonia, capo dell’Accademia di Sura, persona estremamente autorevole non solo per la dottrina ma anche come esempio di comportamento morale corretto. Il fatto di essere un modello non salvava maestri come lui dalle critiche, anzi li esponeva ad esse. Malgrado fosse di famiglia abbastanza nobile era stato in gioventù piuttosto povero, ma lavorando era diventato ricco. Un giorno gli capitò una sciagura economica: produceva del vino e si racconta che 400 suoi otri – una cosa enorme! – diventarono aceto. Mentre era tutto preoccupato per gestire questa situazione vennero a trovarlo alcuni colleghi che gli dissero: “Cerca di pentirti”. Il ragionamento era: sei stato punito per qualcosa di scorretto che hai fatto. La sua reazione fu: “Ma come vi permettete di sospettarmi?”. E la risposta dei maestri: “Come ti permetti tu di sospettare Colui che è il Giudice corretto?”. Il Giudice corretto è Dio: se manda una punizione evidentemente lo fa a ragione. Rav Huna capisce allora che qualcosa c’era e chiese quale notizia stesse circolando, quali fossero le chiacchiere… “La cosa di cui sei accusato – gli risposero – è che tu non dai al tuo mezzadro una determinata parte del raccolto”. La regola infatti era che con il mezzadro non soltanto doveva spartire il vino, ma anche l’uva raccolta. La risposta di Rav Huna fu: “Ma il mezzadro se la ruba già per conto suo!”. E i maestri risposero con un proverbio: chi ruba da un ladro assapora il sapore del furto. Rav Huna imparò la morale e da quel momento stabilì delle regole precise per la divisione dei prodotti col mezzadro che comunque non era un galantuomo. Il racconto si chiude in bellezza … ci sono due finali … in una l’aceto si ritrasforma in vino, nell’altra sul mercato improvvisamente le azioni dell’aceto crescono! Questa storia suggestiva serve a dire che accanto alla parte giuridica relativa alle regole sul furto, la tradizione rabbinica insiste sugli aspetti morali dai quali nessuno è esentato.

Il messaggio fondamentale che viene dalla Bibbia è stato già esposto nella precedente relazione. Il divieto del furto serve ad affermare il diritto alla proprietà, ma questo diritto – come ci ha detto il prof. Zamagni – non è un diritto assoluto: siamo soltanto degli affidatari dei beni. I maestri dicono – ed è per questo che all’inizio dell’anno liturgico, nel capodanno e nel giorno di Kippur, facciamo una preghiera speciale per il sostentamento – che in cielo decidono quanto tu potrai avere e il tuo bilancio è già approvato. La nostra vita economica è fondamentale: nell’ebraismo non c’è esaltazione della povertà. Bisogna distinguere tra ricchezza e disonestà, cose che non necessariamente vanno insieme. Comunque il tema fondamentale è quello della differenza tra l’avere e l’essere: la crescita della persona non è in quanto ha ma in quanto è.
 

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°°Nota del redattore: si fa riferimento a La Repubblica e a Eugenio Scalfari

N.B: Tutti i testi qui pubblicati sono tratti dalla registrazione e non rivisti dagli autori
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Giovanni Paolo II e il dialogo interreligioso

Giovanni Paolo II e il dialogo interreligioso

Roma: Mostra Fotografica “Karol Wojtyla ed il dialogo interreligioso” 

L’ Opera Karol Wojtyla per il sollievo della sofferenza umana in collaborazione con l’Ufficio Rabbinico della Comunità Ebraica di Roma, il Vicariato di Roma ed il Centro Islamico Culturale d’Italia, con il patrocinio di Ministero della Salute, Regione Lazio, Roma Capitale, Sapienza Università di Roma, inaugura la mostra: 

  “Karol Wojtyla ed il dialogo interreligioso: incontri con le comunità ebraiche, cristiane e musulmane” 
  
Dal 25 marzo al 4 maggio 2014
 

tutti i giorni 10:00 – 19:00 / sabato 10:00 – 20
ingresso 5 euro

Area Archeologica dello Stadio di Domiziano (Piazza Navona)
Via di Tor Sanguigna, 3 – 06.45686100

Rav Elio Toaff accoglie Giovanni Paolo II sul piazzale della Sinagoga, oggi largo Stefano Gaj Tachè, e lo accompagna all’interno: è la prima visita di un papa alla Sinagoga di Roma (13/04/1986)
Fonte: Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, Archivio fotografico, 50 anni di Rabbinato di Rav Rashì Prof. Elio Toaff al Tempio e mostra, foto n. 30

Ringraziamo vivamente la dott.ssa Silvia Haia Antonucci, Responsabile dell’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma (ASCER), per la sua disponibilità e cortesia e per averci fornito alcune tra le più significative immagini di Giovanni Paolo II, presenti alla mostra: “Karol Wojtyla e il dialogo interreligioso”.

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Antisemitismo in Italia e in Europa

Antisemitismo in Italia e in Europa

Attualità di un intervento

Mons. Pietro Rossano
«biblista e uomo del dialogo»

Per dire qualcosa di attendibile su un fenomeno così vasto, e guardandolo prevalentemente dal punto di vista religioso, ritengo necessario qualche preliminare.
Ricordo anzitutto che l’odissea ebraica è una delle più grandi epopee della storia. È anteriore al cristianesimo, e non si può immaginare il volto dell’Europa moderna senza l’apporto culturale, sociale ed economico degli ebrei. Ma quanto è difficile scriverla! La loro storia in questo continente è così differenziata, diacronicamente e sincronicamente, che per seguirla occorre padroneggiare non soltanto il latino, il greco e l’ebraico, ma l’aramaico, l’arabo, il yiddish, il ladino e tutte le maggiori lingue europee. Appare in ogni caso che l’antisemitismo rappresenta una patologia costante, latente o in atto, il cui punto più critico è la Germania, ma si constata anche che gli ebrei hanno conosciuto periodi di pace, di benessere e perfino di splendore che sono stati benefici per tutti.

Lo scrittore e storico inglese Hilaire Belloc parla di un «ciclo tragico» delle comunità ebraiche in Europa: «Cordiale accoglienza di una colonia ebraica, quindi disagio, seguito da un’acuta insofferenza, che esplode in persecuzioni, esìli e perfino massacri… seguiti da una reazione e dalla ripresa del processo ciclico ricordato» (Gli ebrei, trad. di A. Marioli, Milano 1934, p. 129). Lo stesso autore delinea quattro vicende nella storia ebraica in Europa: la distruzione, tentazione frequente di masse popolari o di despoti; l’espulsione, come quelle avvenute in Spagna, Inghilterra e Russia; l’assorbimento e l’assimilazione, promossa con vane tecniche, dal battesimo forzato alla obliterazione della identità sociale ebraica; la segregazione, che può essere ostile o rispettosa (op. cit. p.3 ss.).
Ritengo opportuno, dal mio punto di vista, distinguere tra antigiudaismo, antisemitismo moderno e antisionismo.

– l’antigiudaismo, di matrice per lo più religiosa, ha prevalso fino alla metà del secolo scorso. «L’affare di Damasco» e il «caso Mortara» seguiti dalla fondazione dell’Alliance Israelitique Universelle (Parigi I960) ne possono segnare la peripezia finale.

– l’antisemitismo moderno è un magma di elementi razziali, economici, nazionalistici, politici, senza escludere gli stereotipi religiosi: ha i suoi classici (E. Drumont, La France juive, 1886, W. Marr, The victory of Jewry over Germanism, A. Stocker, A. Rohling) e i suoi Pamphlets diffamatori!

– l’antisionismo del nostro secolo è nato come opposizione al Sionismo promosso da Herzl, per ridare a Israele la sua patria spirituale.

Tenendo distinti, anche se non separati, questi tre fenomeni mi sembra si possa affermare che la Chiesa cattolica ha implicazioni e responsabilità diverse in ciascuno di essi, ma nel nostro secolo, con gli ultimi Papi, e con il Concilio Vaticano II ha corretto decisamente la sua rotta, avviando un processo di eliminazione delle matrici religiose dell’antigiudaismo e dell’antisemitismo, affermando il diritto alla libertà religiosa per tutti, e per il popolo ebraico il diritto a vivere nella terra che gli appartiene.

Comincio con l’antigiudaismo.

La Chiesa ha tenuto fin dagli inizi un atteggiamento bivalente verso gli ebrei. Da una parte ha sempre onorato la propria parentela religiosa con Israele, dall’altra gli ha sempre rimproverato la per-fidia, cioè la fede venuta meno davanti al Cristo-Messia. Per questo gli ebrei furono tollerati ma umiliati, accettati ma sottomessi. Per la società medievale che distingueva i popoli con criteri religiosi, c’erano i cristiani e gli infedeli. Gli ebrei stavano nel mezzo, non esclusi come gli altri infedeli, ma non cittadini come i cristiani. Il codice di Teodosio (438 d.C.) fu la base di tutta la legislazione medievale a questo riguardo, canonica e civile. L’ebraismo era tollerato come l’unica religione dissenziente in seno alla cristianità. Era riconosciuto ufficialmente, ma a condizione di non accampare diritti. Ciò faceva sì che gli ebrei non potessero fare nulla senza il permesso concesso per graziosa disposizione dai re, papi, baroni, vescovi, abati, città, ecc… Cotesta situazione offriva esca al disprezzo sociale da parte dei cristiani e al risentimento da parte degli ebrei. «Questo dualismo, osserva uno storico dell’ebraismo (F. Schweitzer, A History of the Jews, London, 1971, p.75) di condannare gli ebrei a una condizione di paria da una parte e di salvaguardare loro certi diritti dall’altra, era…molto difficile da mantenere. Perché richiedeva nelle pubbliche autorità, civili ed ecclesiastiche, di camminare sullo stretto sentiero di prevenire gli ebrei dall’’andare oltre i magri diritti che avevano nella loro ignominia, e di impedire ai cristiani di infrangere tali diritti». Ciò spiega come Papa Callisto II emanasse nel 1120 una Constitutio pro Judaeis, una specie di Magna Charta negativa che vietava i battesimi forzati, l’aggressione agli ebrei e alle loro proprietà, la dissacrazione dei cimiteri, ecc. e come il terzo e quarto Concilio Lateranense qualche decennio dopo (1179 e 1215) imponessero divieti restrittivi agli ebrei, miranti a isolarli dalla vita sociale, li obbligassero a portare un segno distintivo (un cerchio giallo o cremisi sul vestito). Tale ambivalenza è continuata con l’abbruciamento del Talmud, la costituzione del ghetto di Roma, i processi dell’Inquisizione da una parte, mentre dall’altra parte si invitavano medici ebrei alla corte papale, si promuoveva lo studio dell’ebraico nelle facoltà di teologia, e Ignazio di Loyola, a dire del suo compagno e biografo Pedro Ribadeneyra (Dicta et facta Ignatii, Vol. I, p. 24), dichiarava un giorno che «non poteva immaginare per sé un privilegio più alto che essere ebreo, perché così sarebbe stato parente secundum carnem di Gesù Cristo suo Signore e della Vergine sua madre», e amava dirsi un «semita spirituale».
In questo clima non appariva altra soluzione del problema ebraico che la conversione al Cristianesimo e si svilupparono stereotipi teologici e sociologici che offriranno esca all’antisemitismo moderno.
Questo, come ho accennato, si venne sviluppando nella seconda metà del secolo scorso in Francia, in Germania e in Unione Sovietica, mentre l’Italia, il Belgio, l’Olanda e la Gran Bretagna, ne furono meno coinvolti. Non dimentichiamo che Roma ebbe un sindaco ebreo, Nathan, e l’Italia un capo del Governo ebreo (Luigi Luzzatti,1910-11).

L’antisemitismo moderno si alimentò da matrici economiche, razziali, politiche, nazionalistiche, culturali, illuministiche (non si dimentichi Voltaire e tanti altri) e veicolò spontaneamente gli stereotipi religiosi e culturali della tradizione medievale e controriformistica, favorito, o almeno non impedito, dall’inerzia del pensiero teologico sulla realtà dell’Ebraismo religioso. Due personalità ecclesiastiche levarono per prime a Roma e in Italia la voce contro l’antisemitismo: furono il Padre Semeria e Mons. Bonomelli, poi Vescovo di Cremona, che dichiaravano assurde le ragioni razziali, non fondate quelle economiche, «non cristiano» l’atteggiamento antisemita, e che agli ebrei di oggi non si può proprio imputare la morte di Gesù.

Nel 1926 Pio XI condannava l’Action Française nei cui programmi figurava l’antisemitismo; nel 1931 riceveva in udienza il Rabbino capo di Milano, Alessandro da Fano.

Si inserisce qui la vicenda dell’Associazione Amici Israel e del suo manifesto intitolato Pax super Israel; Vi aderivano 19 Cardinali, tra cui Merry del Val, Segretario di Stato di Pio X, 278 Vescovi e 3000 sacerdoti, tra cui 5 Consultori del S. Offizio. L’Associazione si proponeva la soppressione della preghiera del Venerdì Santo «pro perfidis Judaeis», il rigetto dell’accusa di «deicidio», la cessazione delle celebrazioni liturgiche riferite a leggendari omicidi rituali compiuti dagli ebrei. Un decreto del S. Offizio del 25 marzo 1928 pose fine all’Associazione, perché non rispondente alla prassi della Chiesa, ma ne dichiarava «lodevole» lo spirito, e condannava senza mezzi termini (reprobat vel maxime damnat) l’antisemitismo, descritto come odium adversus populum olim a Deo electum.

Tutti conoscono le posizioni di Pio XI, il suo celebre «Noi siamo spiritualmente semiti» del 6 settembre 1938, giorno successivo alla promulgazione delle leggi antiebraiche in Italia e il suo progetto, impedito dalla morte, di una lettera enciclica sull’antisemitismo. Frattanto scrittori cattolici come Maritain, Mounier, Leòn Bloy prendevano ferma posizione in Francia contro l’antisemitismo, ma Giovanni Papini in Italia non ne era immune (cfr. il capitolo «Le idee di Ben Rubi» nel Gog).

Poi vennero la guerra e la Shoah. La posizione della Chiesa verso gli ebrei si consolidò ufficialmente al di là di ogni equivoco, prima con l’impegno caritativo, sotto Pio XII, poi con Giovanni XXIII, che cominciò con il piano affettivo (ricordiamo l’espressione «Io sono Giuseppe vostro fratello»), per passare nell’enciclica «Pacem in terris» a quello giuridico-teologico della libertà della professione religiosa, che deve «essere immune da ogni costrizione».

Il problema degli ebrei entrò nel Concilio con la Dichiarazione sulla libertà religiosa, e quella Nostra aetate, e venne ribadito nei due documenti del 1975 e 1985 della Commissione Pontificia per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Devono essere ricordati qui gli interventi espliciti e numerosi di Giovanni Paolo II, la dichiarazione fatta a Mainz (1980) che l’alleanza ebraica «non fu mai abolita», e la visita alla Sinagoga di Roma (1986) che intese simbolicamente chiudere un passato e consolidare una ritrovata fraternità.

Che cosa si propone la Chiesa? Educare i cristiani al rispetto e alla stima per il popolo ebraico e la sua fede, sviluppare la comprensione teologica del rapporto cristiano-ebraico e promuovere, dove è possibile, una collaborazione sociale e culturale. Tale è lo scopo della giornata annuale per l’ebraismo, fissata l’anno scorso dalla CEI per la Chiesa italiana il 17 gennaio di ogni anno.

Una parola infine sul Sionismo e l’antisionismo.

La posizione della Santa Sede è passata da un atteggiamento iniziale di benevola neutralità («la consideriamo una questione umanitaria» dichiarava il Segretario di Stato Card. Merry del Val a Theodore Herzl nel 1904) al riconoscimento, più volte affermato, del diritto di Israele di vivere al sicuro nella terra legittimamente posseduta, e alle dichiarazioni, anch’esse ripetute, che non sussistono pregiudiziali teologiche verso lo Stato d’Israele, ma che gravi cause persistenti impediscono tutt’oggi alla Santa Sede di perfezionare le relazioni politiche. In questo ambito l’antigiudaismo e l’antisemitismo sono del tutto fuori causa.

Riesce la Chiesa nel suo proposito di realizzare un nuovo corso con il popolo ebraico?

Un episodio può servire da spia per comprendere ciò che è stato fatto e ciò che resta da completare. Nella memoria dei Santi Gioacchino ed Anna, che il calendario cristiano colloca il 26 luglio, l’oremus della Messa recita nel testo ufficiale latino: «Domine Deus Patrum nostrorum… che hai preordinato Gioacchino ed Anna ad essere genitori della Madre del tuo figlio incarnato, concedici per loro intercessione… ut salutem tuo promissam populo consequamur». Il messale italiano traduce: «… concedi ai tuoi fedeli di godere i beni della salvezza eterna»: lasciando così cadere la grande categoria teologica dell’associazione dei cristiani alla promessa fatta al popolo ebraico».

Errore, svista, disattenzione? Non voglio giudicare, ma questo caso dimostra che c’è ancora da lavorare in questo campo.

Roma, 12 luglio 1990 – Camera dei Deputati – Tavola rotonda sul tema “L’Antisemitismo in Italia e in Europa”. 
Intervento di Mons. Pietro Rossano Magnifico Rettore dell’Università Lateranense

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Papa Francesco/World Jewish Committee

Papa Francesco/World Jewish Committee

Il primo incontro di Francesco con i leader della comunità ebraica mondiale (World Jewish Committee)

di Lisa Palmieri Billig

Rav David Rosen

 

A tre mesi dalla sua elezione, Jorge Maria Bergoglio ha impresso un nuovo stile sul papato. Fedele al suo nome, che ha scelto ispirandosi alla vita di San Francesco d’Assisi, il 266mo Papa di Roma sta battendo ogni record con la sua empatia e la sua esemplare semplicità. Si presenta come un francescano, lasciandosi dietro il rigore del suo background gesuita. Va scartando uno per uno molti orpelli mondani del papato.

Seguendo una tradizione iniziata con Giovanni XXIII, tramandata da Giovanni Paolo I durante il suo breve regno e poi continuata attraverso i talenti di Giovanni Paolo II nella comunicazione e nel suo uso geniale dei media, Francesco preferisce la comunicazione spontanea e diretta alle formalità gerarchiche.

Com’è tipico del suo stile, lavora per eliminare i simboli di potere ed i privilegi per sé e per la Curia romana. Dopo una serie di scelte non proprio convenzionali – qualcuno direbbe “dissidenti” – contro le convenzioni papali (il rifiuto di trasferirsi nella suite papale, la scelta di indossare una croce d’argento piuttosto che d’oro, l’aver disertato un concerto in suo onore preferendo un incontro con rappresentanze internazionali presso la Santa Sede, l’abolizione della classe dei nobili “gentiluomini del Papa” e così via), il nuovo stile è stato evidenziato ancora una volta il 24 giugno, durante il suo primo incontro ufficiale con i rappresentanti della comunità ebraica mondiale.

I 28 delegati delle organizzazioni ebraiche che costituiscono l’IJCIC (il Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose) hanno potuto assistere ad una rottura visibile con le tradizioni del passato quando Papa Francesco, sorprendendoci, è entrato tranquillamente senza preavviso nella sala dove eravamo in attesa.

Il suo breve discorso ha trasmesso calore personale e un chiaro abbraccio dei progressi compiuti in mezzo secolo di dialogo ebraico-cristiano sulla base del documento del Vaticano II, “Nostra Aetate”.

Un messaggio essenziale, sentito in tutto il mondo, è stato ribadito nella sua dichiarazione enfatica: “Per le nostre radici comuni, un cristiano non può essere antisemita!”

Altrettanto importanti sono le riflessioni di Francesco su “il cammino di maggiore conoscenza e comprensione reciproca percorso negli ultimi decenni tra ebrei e cattolici”, un percorso al quale i suoi predecessori “hanno dato notevole impulso sia mediante gesti particolarmente significativi sia attraverso l’elaborazione di una serie di documenti che hanno approfondito la riflessione circa i fondamenti teologici delle relazioni tra ebrei e cristiani. Si tratta di un percorso di cui dobbiamo sinceramente rendere grazie al Signore.”

Jorge Maria Bergoglio, da arcivescovo di Buenos Aires, ha preso parte a un dialogo intimo con la grande comunità ebraica di quella città. La sua ricca esperienza personale è stata evidenziata da ulteriori osservazioni. A Buenos Aires, ha detto, “ho avuto la gioia di mantenere relazioni di sincera amicizia con alcuni esponenti del mondo ebraico.” Ha ricordato anche di essersi “confrontato con loro in più occasioni sulle sfide comuni che attendono ebrei e cristiani. Ma soprattutto”, ha continuato,”come amici, abbiamo gustato l’uno la presenza dell’altro, ci siamo arricchiti reciprocamente nell’incontro e nel dialogo, con un atteggiamento di accoglienza reciproca, e ciò ci ha aiutato a crescere come uomini e come credenti”.

“La stessa cosa è avvenuta ed avviene in molte altre parti del mondo” ha concluso, “e queste relazioni di amicizia costituiscono per certi aspetti la base del dialogo che si sviluppa sul piano ufficiale. Non posso pertanto che incoraggiarvi a proseguire il vostro cammino, cercando, come state facendo, di coinvolgere in esso anche le nuove generazioni. L’umanità ha bisogno della nostra comune testimonianza… “.

Una testimonianza comune è stata offerta appena due settimane prima di questo incontro, quando il Movimento dei Focolari ha ospitato un incontro ebraico-cattolico a Castel Gandolfo, al quale ha preso parte una delegazione della Comunità Ebraica di Buenos Aires. Alla conferenza stampa conclusiva della riunione, i rappresentanti cattolici ed ebrei sono stati altrettanto entusiasti per l’elevato livello di comunicazione. “Il dialogo ha raggiunto nuove vette di fiducia e di espressione di solidarietà spirituale”, ha commentato uno dei partecipanti, Emily Soloff, Direttore Associato del Dipartimento Interreligioso della American Jewish Committee (AJC).

Anche Il rabbino argentino Abraham Skorka, amico di Papa Francesco e co-autore assieme al pontefice del libro “Tra Cielo e Terra”, ha preso parte al seminario dei Focolarini. Ha detto di considerare Jorge Maria Bergoglio “un vero amico”, così come Papa Francesco, che ha utilizzato la stessa espressione parlandomi di Rabbi Skorka in un commento privato dopo l’udienza IJCIC.

In un certo senso, Abraham Skorka sembra essere per Papa Francesco quel che Jerzy Kluger, amico d’infanzia polacco di Karol Wojtyla, fu per Giovanni Paolo II. In entrambi i casi, profonde amicizie personali fungono da chiavi emotive e spirituali per aprire le porte a una maggiore comprensione tra le nostre due religioni fraterne.

La consapevolezza dello stato avanzato del dialogo è stata tracciata, nel suo discorso al Papa Francesco, dal presidente della IJCIC Prof. Lawrence Schiffman, con un grafico dettagliato di ciò che è stato fatto e delle rimanenti sfide che dobbiamo affrontare insieme.

I progetti futuri del Comitato di collegamento internazionale (composto dall’IJCIC assieme ad ufficiali del Vaticano) comprendono un convegno, che si terrà ad ottobre a Madrid, sul tema “Le sfide alla fede nella società contemporanea” e gli eventi per celebrare il 50° anniversario di “Nostra Aetate” che avranno luogo nel 2015.

Il nostro impegno comune per la difesa della dignità umana e dell’uguaglianza, della libertà religiosa e dei valori etici che sorgono dalle nostre tradizioni parallele sono diventati argomenti di discussione il giorno successivo all’udienza dell’IJCIC col Papa. Molti dei delegati ebrei, nel corso di una riunione del mattino con il cardinale Koch e padre Norbert Hofmann (rispettivamente Presidente e Segretario della Pontificia Commissione per i Rapporti Religiosi con gli Ebrei) hanno espresso preoccupazione per l’aumentare delle persecuzioni dei cristiani in molti paesi dell’Africa, Asia e del Medio Oriente, dove vivono come minoranze. Il cardinale Koch ha confermato che oggi i cristiani sono la minoranza più perseguitata nel mondo. Viste le ripetute persecuzioni delle comunità ebraiche nella storia, questo tocca una corda sensibile di empatia nella psiche ebraica. La questione di cosa può essere fatto e se le dichiarazioni pubbliche di solidarietà e di indignazione da parte di leader del mondo ebraico in realtà siano di aiuto o possano ostacolare la sicurezza dei cristiani in questi Paesi, ha ricevuto valutazioni contraddittorie.

Una organizzazione, l’AJC, ha abbracciato l’idea che è sempre meglio di parlare contro l’ingiustizia piuttosto che rimanere in silenzio, ed agisce in base a questa premessa. Insieme ad altre organizzazioni membri del IJCIC, l’AJC si è battuta per la solidarietà reciproca non solo contro l’antisemitismo, ma contro i pregiudizi e le persecuzioni di ogni gruppo, ovunque ed in qualsiasi momento.

“L’AJC è uno dei fondatori dell’IJCIC ed è la più antica organizzazione ebraica americana che ha aperto la strada alla trasformazione nelle relazioni tra cattolici ed ebrei”, ha detto il rabbino David Rosen, Direttore Internazionale di AJC per gli affari interreligiosi.

Questa trasformazione, come Papa Francesco ha ricordato a tutti noi, è radicata nella nostra amicizia sempre più profonda ed è parte di “un vasto movimento che si è realizzato a livello locale un po’ in tutto il mondo…”

Fonte: Vatican Insider – domenica 30 giugno 2013

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LEA SESTIERI – compie 100 anni!

LEA SESTIERI – compie 100 anni!

Auguri di cuore! Mazal tov!
Lea Sestieri Scazzocchio

«II punto di vista mio che da circa cinquant’anni dedico molta parte del mio tempo alla riconciliazione tra ebrei e cristiani, cercando di far conoscere ai non ebrei chi siamo noi e che cosa è l’ebraismo che pratichiamo e viviamo sia ortodossi che laici, è che so bene che    dovremo affrontare ancora animosità e conflitti, ma sento anche con la mia sensibilità di persona impegnata che i passi tremanti del Papa in Israele sono stati passi le cui orme non possono essere cancellate e debbono entrare a far parte intrinseca della Chiesa cristiana in generale nella sua riconciliazione con chi le ha fornito le radici senza le quali non avrebbe potuto nascere» Lea Sestieri (in occasione della visita in Israele di papa Giovanni Paolo II, 23 marzo 2000). 

prof. Claudio Scazzocchio (figlio di Lea)

Lilli Spizzichino e Giacoma Limentani

                                                                          
                                                                                                 Marco Cassuto Morselli

Dall’Archivio di “Per Amore di Gerusalemme”, alcune foto del 90° compleanno di L.Sestieri – Roma, 2003

A cura di Vittoria Scanu

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Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.

Cristianità ed ebraismo: c’è ancora molto lavoro da fare.

Una sfida da accogliere

Giorgio Israel

La sfida è trasportare i risultati ottenuti nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

Quando si parla dell’antisemitismo cristiano non occorre dimenticare il percorso compiuto in circa mezzo secolo. Constato senza esitazione che i miei figli non hanno conosciuto nemmeno una piccola parte delle cattive parole, delle insinuazioni devastanti, delle pressioni psicologiche che ho subito nei miei anni scolastici. L’insegnamento del disprezzo sopravvive, ma in circoli ristretti ed esterni alla dottrina ufficiale della Chiesa. Come dimenticare quel che veniva scritto ancora meno di un secolo fa sull’organo ufficiale dei Gesuiti, “Civiltà Cattolica”? Prose come quelle stentano a uscire – almeno in quei termini – persino dal covo più accanito dell’antisemitismo cattolico, la comunità lefebvriana. Un grande cammino è stato compiuto in mezzo secolo dopo duemila anni di odio e di persecuzioni.

Eppure questo non ci basta, ed è giusto che sia così. Ma non sarebbe giusto svalutare l’importanza di quel cammino, altrimenti non sapremmo neppure cosa resta da fare. L’opera di Giovanni XXIII e la Nostra Aetate hanno segnato l’inizio della svolta. Quel testo contiene l’embrione della tesi più audace, secondo cui i «doni» e la «vocazione» di Dio sono «senza pentimento», accanto a un atteggiamento di generica benevolenza: gli ebrei sono «ancora» carissimi a Dio e da rispettare per «religiosa carità evangelica». Era un passo decisivo per sbarazzare il campo dell’insegnamento del disprezzo incorniciato in un invito ai fedeli alla tolleranza e al rispetto malgrado le incomprensioni depositate nei secoli. Per iniziare a spazzare via il terreno da queste incomprensioni occorrevano atti concreti, spettacolari, carichi di emozioni. Tale fu la visita di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Roma. Il papato di Wojtyla non è stato esente da passi incespicanti, soprattutto in certe occasioni pasquali in cui rispuntarono ambigui accenni sul ruolo degli ebrei nella Passione di Gesù.

Ma la nota dominante fu quella della traduzione sul piano concreto dell’invito contenuto nella Nostra Aetate. Giovanni Paolo II dichiarò che «chi incontra Gesù, incontra l’ebraismo». Fu, ancor più che un asserto teologico, un proclama pratico, un invito a incontrare non soltanto un ebraismo astratto e cristallizzato nel passato, ma l’ebraismo vivente e, in definitiva, a incontrare gli ebrei. Ma neanche questo poteva bastare. Non poteva bastare la professione di fratellanza e il fatto emotivo, perché le radici più profonde, ostinate e difficili da sradicare sono sul terreno teologico. Chi ha compreso che questo era il passo decisivo da compiere è stato il Cardinale Ratzinger, prima sotto il papato di Giovanni Paolo II, e poi come quel papa Benedetto XVI che si è dimesso con un gesto che ha lasciato il mondo attonito. Sono in tanti, quasi tutti, a riconoscere l’importanza dell’opera da lui fatta, ma nel passato non sono stati altrettanti ad averla compresa e apprezzata; soprattutto ad aver valutato lo straordinario sforzo concettuale e teologico compiuto con il documento del 2001 su “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”. È un testo che sviscera tutti i passi evangelici in cui trova alimento l’antigiudaismo, al fine di eliminare le potenzialità negative che essi possono contenere.

A questo testo occorre aggiungere varie parti dei libri di Benedetto XVI su Gesù di Nazareth, che hanno sottratto ogni spazio al tragico mito del deicidio. C’è chi ha minimizzato l’importanza di quest’opera – che invece, a mio avviso, costituisce la conquista più solida di tutte – a causa della visione complessiva ratzingeriana tesa a una forte difesa della dottrina e della tradizione. È curioso che questa accusa sia venuta talora da chi propone una difesa del tutto analoga in ambito ebraico. È un atteggiamento incoerente: perché mai si dovrebbe chiedere un atteggiamento riformatore alla Chiesa quando si considera un indirizzo del genere una sciagura per sé stessi? Chi scrive considera
negativo – per dirla con le parole di Alberto Cavaglion – che siano sempre i “modernisti” ad avere la peggio. Ma non si può predicare il “modernismo” a tutti salvo che a sé stessi. L’importanza dell’opera teologica di Benedetto XVI è provata dal fatto che essa ha reso possibile il dialogo sul tema più difficile. Basti pensare al noto libro del rabbino Jacob Neusner, Un rabbino parla con Gesù; o all’affermazione del rabbino Gilles Benheim – che ricordavo nell’ultima rubrica di Shalom -secondo cui l’antigiudaismo sarà superato definitivamente quando i cristiani riusciranno a percepire il significato positivo del “no” ebraico alla divinità di Gesù. Cosa resta da fare? Il lavoro lungo e complesso di trasportare questi risultati nelle coscienze dei singoli e radicarli in profondità.

È un lavoro tanto più complesso in un periodo di grande difficoltà e di sfide epocali per il mondo cattolico, e cristiano in generale, di cui le dimissioni del Papa sono la testimonianza. Sta alla saggezza di tutti mettersi gli occhiali di quel che unisce, persino quando si guarda a quel che divide, anziché darsi all’opera di distruzione, la più facile di tutte.

Giorgio Israel

Fonte: Shalom, marzo 2013

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13 aprile 1986/13 aprile 2013

13 aprile 1986/13 aprile 2013

                  Un anniversario da non dimenticare

Giovanni Paolo II e il Rabbino Elio Toaff

 

Ventisette anni fa, alle ore 17, Papa Giovanni Paolo II giungeva al Tempio Maggiore di Roma, dove veniva accolto dalle autorità ebraiche e dal Rabbino Capo Prof. Elio Toaff. Dopo duemila anni, il vescovo di Roma, successore di san Pietro, entrava ufficialmente in una Sinagoga. Incontro storico, indimenticabile. Inizio di un’era nuova nei rapporti ebraico-cristiani.

 

 

Svolgimento della cerimonia

All’ingresso del Papa in Sinagoga viene cantato il Salmo 150 “Lodate il Signore nel suo Santuario”, col ritornello dell’Alleluia ripetuto più volte e accompagnato dall’organo.

Applausi dei presenti.

Saliti alla Tevah, Il Papa e il Rabbino Capo si siedono e si dispongono all’ascolto di un brano della Torah. Il Rabbino Vittorio Della Rocca legge in ebraico Genesi 15 (Dio promette ad Abramo una grande discendenza). Lo stesso brano viene poi letto in italiano dal Chazzan.

Il Rabbino Della Rocca legge ora in ebraico il brano del Profeta Michea (Cap.4) :”Venite, saliamo al monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe…”. Lo stesso brano viene poi letto in italiano dal Chazzan.

Segue il benvenuto al Papa del Presidente della Comunità ebraica, che illustra la storia bimillenaria della Comunità romana.

Prende ora la parola il Rabbino Capo Toaff.

Segue il Discorso del Papa che termina con le parole in ebraico del Salmo 118 “Celebrate il Signore perché è buono: perché eterna è la sua misericordia”, che Giovanni Paolo II ha pronunciato in ebraico.

Il Rabbino Toaff conclude con le parole del Salmo dei gradini di David (124) : “Sia benedetto il Signore, che non ci ha lasciati in pasto ai loro denti. Noi siamo stati liberati… Il nostro aiuto è nel nome del Signore che ha fatto cielo e terra”.

Il coro del Tempio intona il canto che gli ebrei cantavano andando incontro alla morte nei campi di sterminio nazisti: “Anì maamìn” (Io credo con fede certa nella venuta del Messia).

Il Rabbino Toaff invita ora i presenti a fare un momento di silenzio e di preghiera, “perché la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli”.

Dopo il silenzio, il Chazzan legge il Salmo 16 “Proteggimi, o Dio, in te mi rifugio…”.

Ora il Coro canta lo stesso salmo in ebraico. Il Papa, i cardinali e i rabbini ascoltano stando in piedi sulla Tevah.

La cerimonia pubblica termina con l’abbraccio fraterno tra il Papa e il Rabbino Toaff, mentre il pubblico presente applaude calorosamente.


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ANNIE CAGIATI

ANNIE CAGIATI

18 aprile 1993: Stelle gialle in Piazza San Pietro – Annie Cagiati

Un ricordo indelebile nell’ambito del dialogo ebraico-cristiano

A quattordici anni dalla sua scomparsa, “Per amore di Gerusalemme” ricorda con grande affetto e riconoscenza Annie Cagiati, una donna eccezionale che ha dedicato tutte le sue energie, fisiche e spirituali, alla causa della verità. Convinta sostenitrice del dialogo ebraico-cristiano, Annie ha avuto un ruolo decisivo nella nascita dell’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma, trent’anni fa.

Nel 1990, nell’intento di ristabilire la verità storico-religiosa sull’Ebraismo, in linea con quanto insegnato – a partire dal Concilio Vaticano II – dalla Chiesa Cattolica e dalle altre Chiese Cristiane, Annie fonda il Comitato italiano “Cristiani contro l’antisemitismo” e ne assume la presidenza. Il Comitato è formato da sacerdoti, religiosi e laici, tutti coscienti del fatto che due millenni di pregiudizi antiebraici hanno inquinato a tal punto le fonti della nostra cultura, sia cristiana che laica, da rendere lunga e difficile l’opera di riaffermazione della verità.

Di salute cagionevole, Annie Cagiati ha affrontato con spirito combattivo molte opposizioni, chiusure e ostilità – anche in ambito religioso e politico – senza mai perdere di vista lo scopo principale della sua vita di credente: ristabilire la verità su Israele e sull’ebraismo; combattere e denunciare ogni forma di antisemitismo e antisionismo. “Sempre più cosciente – scrive – delle enormi colpe “cristiane” e della necessità di ristabilire la verità in un campo in cui era stata troppo a lungo travisata e taciuta, con gravissimo danno di un intero popolo. Il popolo di Gesù”.

Scrittrice prolifica, pubblica numerosi libri, articoli e fogli informativi riguardanti il popolo ebraico, la sua storia e la sua unicità.
Nel 1992, dieci anni dopo l’attentato alla Sinagoga di Roma e la morte del piccolo Stefano Tachè, si registrò un’improvvisa esplosione di antisemitismo che Annie così commenta: “Non succede nulla di cui ci si debba meravigliare. Respiriamo continuamente antisemitismo a pieni polmoni senza reagire. Come potremmo non esserne contaminati? Si comincia a scuola, con libri di testo pieni di madornali errori sull’ebraismo e sullo Stato d’Israele. Si continua in parrocchia con una catechesi spesso poco conciliare e raramente rispettosa della realtà ebraica e del vero insegnamento della Chiesa. Poi viene l’età dei più disgustosi e triti slogan antisemiti, di cui si riempie la bocca chi è incapace di ragionare con la propria testa, suscitando ilarità e persino consenso. A questo punto il terreno, arato e concimato, è pronto a ricevere i semi di odio di un’abile quanto faziosa propaganda estremista. E’ solo la realtà di ieri e dell’altro ieri che viene un po’ più a galla. E sarà di domani se qualcosa non cambierà radicalmente nella nostra cultura e nel nostro cuore”.

Il 18 aprile 1993, a 50 anni dall’inizio della deportazione degli ebrei italiani, mentre l’ebraismo mondiale faceva memoria della Shoah (Yom-ha-Shoah), in numerose città italiane si sono svolte manifestazioni in cui tutti i partecipanti portavano sul petto una stella di David gialla, con scritto: “Io non dimentico”. A Roma, l’ incontro è stato promosso dal Comitato Italiano Cristiani contro l’ antisemitismo (Presidente: Annie Cagiati), dalla Tavola Valdese e dalle Religioni per la pace.

Un gran numero di cristiani ed ebrei – tra cui molti rabbini – preti e suore, si sono riuniti in Piazza San Pietro dove il Santo Padre, Giovanni Paolo II, ha espresso tutto il suo affetto e la sua solidarietà verso i figli d’Israele, con queste toccanti parole: “I giorni della Shoah hanno segnato una vera notte nella storia, registrando crimini inauditi contro Dio e contro l’uomo. Giorni di disprezzo per la persona umana, manifestati nell’orrore delle sofferenze sopportate da tanti dei nostri fratelli e sorelle ebrei. Eventi terribili, ormai lontani nel tempo, ma scolpiti nella mente di molti tra noi. Come non essere accanto a voi, amati fratelli ebrei, per ricordare nella preghiera e nella meditazione un così doloroso anniversario? Siatene certi, non sostenete da soli la pena di questo ricordo, noi preghiamo e vegliamo con voi, sotto lo sguardo di Dio, santo e giusto, ricco di misericordia e di perdono”. Il Papa ha concluso dicendo: “Quel mare di sofferenze terribili e di torti sopportati devono, oggi, unirci per poter affrontare i nuovi mali che oggi minacciano l’umanità: l’indifferenza, il pregiudizio e le manifestazioni di antisemitismo”.

Alla sua morte, avvenuta il 15 febbraio 1999, l’ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede, dott. LOPEZ, scrive: ”Persona di cultura e di forti principi, Annie Cagiati ha saputo levare la voce con forza contro l’ingiustizia e la menzogna. Personalità dal coraggio singolare e dai più alti valori spirituali”.

Dandole l’estremo saluto cristiano, padre Innocenzo Gargano, della Comunità Monastica di Camaldoli, ha definito Annie: una figura preminente del dialogo ebraico – cristiano.

A quanti, come noi, l’hanno conosciuta, amata e stimata per il suo impegno morale e la totale dedizione alla causa della verità, resta il compito di non dimenticarla. 

                La sua memoria sarà sempre in benedizione! 

Vittoria Scanu – Per Amore di Gerusalemme

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Il popolo ebraico: segno di Dio

Il popolo ebraico: segno di Dio

                  Gli Ebrei: segno di Dio

Federico il Grande, chiese a Jean Baptiste du Boyer, marchese d’Argent: “Può darmi un segno inconfutabile dell’esistenza di Dio?”. Il marchese, rispose: “Sì, Maestà, gli Ebrei!”. 

“All’origine di questo piccolo popolo situato tra i grandi imperi di religione pagana che lo eclissano con lo splendore della loro cultura, vi è l’elezione divina. Questo popolo è invitato e guidato da Dio, Creatore del cielo e della terra… Si tratta di un fatto soprannaturale. Questo popolo persevera a dispetto di tutti perché è il popolo dell’Alleanza e perché, nonostante le infedeltà degli uomini, il Signore è fedele alla sua Alleanza”. (Dal Discorso di Giovanni Paolo II ai partecipanti all’incontro di studio su “Radici dell’antigiudaismo in ambiente cristiano” – 31 ott. ‘97).

“Io sono con te”

Non temere, perché io sono con te; dall’oriente farò venire la tua stirpe, dall’occidente io ti radunerò. Dirò al settentrione: “Restituisci”, e al mezzogiorno: “Non trattenere; fa’ tornare i miei figli da lontano e le mie figlie dall’estremità della terra, quelli che portano il mio nome e che per la mia gloria ho creato e plasmato e anche formato”.  
 Isaía 43, 5-7
A cura di Vittoria Scanu

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