Tag: Gerusalemme

Gerusalemme: città davidica

Gerusalemme: città davidica

GERUSALEMME: luna piena

Gerusalemme per i biblisti è riferimento fon­damentale: la lingua ebraica è parlata, si può vivere la cultura giudaica, si possono compren­dere meglio feste come Sukkot, Pasqua, Penteco­ste… Si scopre un popolo ancora vivo che con­tinua a sperimentare la vocazione di Abramo. In secondo luogo, si costata che in Terra Santa è stupefacente, straordinaria per l’archeologia. Si nota che la Scrittura non è semplice composizio­ne di generi letterari, ma testimonianza di una realtà che gli archeologi stanno scoprendo ogni giorno. Uno degli ultimi scavi, ad esempio, ha interessato la città di Magdala, rinvenuta con la sinagoga, il foro, i bagni rituali, il porto, stu­penda meraviglia. Gli Ebrei ne hanno cercato sempre la parte del periodo di Davide, perché interessa dimostrare che la Terra promessa è stata data a loro già in quel periodo… Invece, dei resti dell’epoca del re Davide essi rinvengo­no quelli che riguardano il Figlio di Davide, con documentazione archeologica che si riferisce ai tempi di Gesù, cioè al periodo romano; ancora prima di trovare livelli più antichi. È questo il fascino di stare a Gerusalemme. Ogni anno ci sono scoperte archeologiche e si appura sempre più che il testo della Scrittura appartiene davve­ro alla terra e alla storia d’Israele. E che quindi c’è realmente una storia biblica, come una geo­grafia biblica, molto importante e sempre di più svelata e conosciuta”. 

Padre Frédéric Manns, biblista



A cura di Vittoria Scanu

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A Gerusalemme – Un aneddoto autentico

A Gerusalemme – Un aneddoto autentico

 Non temete, vi ucciderò senza farvi soffrire!
“Un amico francese, religioso cattolico a Gerusalemme e noto biblista, mi raccontava di recente che , nel loro convento, serviva da sempre, come factotum, un ormai anziano musulmano. Onesto, gran lavoratore, di tutta fiducia, faceva ormai parte della famiglia e tutti quei religiosi gli volevano bene, sinceramente ricambiati. Un venerdì, l’uomo tornò dalla moschea con un’aria accasciata. Il superiore della casa, insistendo, riuscì a farlo parlare.
Disse:
<<Oggi l’imàm che dirige la preghiera ci ha detto, nella predica, che nel giorno del trionfo di Allah e del suo Profeta, nel giorno che presto verrà e in cui libereremo questa Santa Città da ebrei e cristiani, tutti gli infedeli che non faranno subito professione di fede dovranno essere uccisi. Così vuole il Corano cui noi tutti dobbiamo obbedire>>.
Una pausa, e poi: <<Ma non tema, padre , sa che io vi voglio bene, so come fare, se dovrò sopprimervi troverò il modo di non farvi soffrire>>.

L’aneddoto, purtroppo, è autentico”.


Tratto dal Blog di Vittorio Messori 

(Corriere della Sera, 14 gennaio 2015) 


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Gerusalemme: “Museo delle terre della Bibbia”

Gerusalemme: “Museo delle terre della Bibbia”

In mostra 110 tavolette di argilla di 2500 anni fa.

Uno spaccato della vita degli ebrei durante l’esilio a Babilonia 2.500 anni fa: lo testimoniano più di 100 tavolette di argilla – incise in cuneiforme accadico – esposte per la prima volta questa settimana al ‘Museo delle terre della Bibbia’ a Gerusalemme. La rassegna – intitolata ‘Dalle rive di Babilonia’ – è considerata “uno dei più importanti antichi archivi ebraici dalla scoperta dei Rotoli del Mar Morto”.

Come le tavolette (molto più numerose delle 110 della rassegna che riguardano solo temi ebraici) siano state scoperte, resta ancora in gran parte un mistero: gli studiosi hanno ipotizzato che la collezione sia stata rinvenuta in uno scavo nel sud dell’Iraq negli anni ’70 e che sia poi riemersa nel mercato internazionale di antichità. Fatto sta che la raccolta di reperti è ritenuta una scoperta molto importante per far luce sulla vita delle comunità ebraiche sradicate da Israele all’epoca dell’esilio. Le tavolette – che contengono principalmente certificati amministrativi come vendite, contratti, affitti, discorsi – sono nel classico cuneiforme accadico e alcune sono state cotte al forno.

Grazie all’uso babilonese di scrivere la data su ogni documento, in base al re in quel momento sul trono, gli archeologi – secondo quanto reso noto dal museo – hanno fatto risalire le argille tra il 572 e il 477 prima di Cristo.

La più antica tavoletta della collezione è stata scritta circa 15 anni dopo la distruzione nel 586 del Primo Tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor, il re caldeo che deportò gli ebrei a Babilonia. L’ultima invece è stata incisa circa 60 anni dopo il ritorno di una parte degli esiliati in Israele secondo la concessione del re di Persia Ciro nel 538 avanti Cristo. Nei libri pubblicati dal Museo sulla collezione, si dice che il contenuto delle tavolette riflette la vita di villaggi tra l’Eufrate e il Tigri: uno di questi chiamato Al-Yahudu, termine usato nelle fonti babilonesi per indicare Gerusalemme.

“Il villaggio – ha detto Horowitz, citato dai media – è la ‘Gerusalemme di Babilonia’ così come New York è la ‘nuova York'”. Gli abitanti di Al-Yahudu erano ebrei, come testimoniano i loro nomi: Gedalyahu, Hanan, Dana, Shaltiel e Netanyahu. Inoltre, in una delle tavolette sono incise, accanto alla lingua accadica, antiche lettere ebraiche. “Le più vecchie – ha sottolineato Horowitz – dall’esilio babilonese”. (ANSA).

Fonte: “SHALOM 7”- 8 febbraio 2015


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SION

SION

Gerusalemme: Torre di Davide


O Sion, dall’occidente e dall’oriente, da settentrione e da meridione, lontani e vicini, ti inviano il loro saluto.
 

Ti saluta chi soffre per te di una nostalgia invincibile, il cui pianto è come la rugiada dell’Hermon che vorrebbe irrorare i tuoi monti. Sono come uno sciacallo che piange il tuo dolore, ma se sogno di ritornare a te, sono come un’arpa che canta i tuoi carmi…

La tua aria è la vita che l’anima respira, i tuoi grani di sabbia sono grani di mirra, i tuoi corsi d’acqua fiumi di miele.
 

Sion, tutta la bellezza, la grazia e l’amore sono riuniti in te;coloro che ardentemente ti amano sono a te congiunti.
 

Esiliati, dispersi per pendii e monti le greggi della tua moltitudine non dimenticano mai che tu sei il loro ovile, cercano le tue vie, salgono i sentieri che conducono alle tue palme.

Dio ti ha desiderato come sua residenza.


Beato colui che è stato scelto per avvicinarsi a te e rimanere nella tua dimora!
Beato, beato colui che attende e veglia e vedrà salire l’alba della tua luce!

Beato colui sul quale sorgeranno le tue aurore, quando la tua antica giovinezza rifiorirà per la salvezza dei tuoi eletti e per la loro gioia!
 

(Juda Halevy, fine XI sec. – 1140)


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Giorno della Memoria: 27-28 – Aprile 2014

Giorno della Memoria: 27-28 – Aprile 2014


Nel “giorno della Memoria della Shoah” la Chiesa di Roma dichiara santi due papi amici del popolo ebraico: Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II.

Discorso pronunciato da papa Giovanni Paolo II in occasione della sua visita in Terra d’Israele.

Gerusalemme: Mausoleo della Memoria “Yad Vashem”


Le parole dell’antico Salmo sgorgano dal nostro cuore:


Sono diventato un rifiuto.
Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
quando insieme contro di me congiurano,
tramano di togliermi la vita.
Ma io confido in te, Signore; dico: ‘tu sei il mio Dio’
(Sal 31, 13-15). 

 
1. In questo luogo della memoria, la mente, il cuore e l’anima provano un estremo bisogno di silenzio. Silenzio nel quale ricordare. Silenzio nel quale cercare di dare un senso ai ricordi che ritornano impetuosi. Silenzio perché non vi sono parole abbastanza forti per deplorare la terribile tragedia della Shoah. Io stesso ho ricordi personali di tutto ciò che avvenne quando i Nazisti occuparono la Polonia durante la Guerra. Ricordo i miei amici e vicini ebrei, alcuni dei quali sono morti, mentre altri sono sopravvissuti.

Sono venuto a Yad Vashem per rendere omaggio ai milioni di Ebrei che, privati di tutto, in particolare della loro dignità umana, furono uccisi nell’Olocausto. Più di mezzo secolo è passato, ma i ricordi permangono.

Qui, come ad Auschwitz e in molti altri luoghi in Europa, siamo sopraffatti dall’eco dei lamenti strazianti di così tante persone. Uomini, donne e bambini gridano a noi dagli abissi dell’orrore che hanno conosciuto. Come possiamo non prestare attenzione al loro grido? Nessuno può dimenticare o ignorare quanto accadde. Nessuno può sminuirne la sua dimensione.

2. Noi vogliamo ricordare. Vogliamo però ricordare per uno scopo, ossia per assicurare che mai più il male prevarrà, come avvenne per milioni di vittime innocenti del Nazismo.

Come potè l’uomo provare un tale disprezzo per l’uomo? Perché era arrivato al punto di disprezzare Dio. Solo un’ideologia senza Dio poteva programmare e portare a termine lo sterminio di un intero popolo.

L’onore reso ai «gentili giusti» dallo Stato di Israele a Yad Vashem per aver agito eroicamente per salvare Ebrei, a volte fino all’offerta della propria vita, è una dimostrazione che neppure nell’ora più buia tutte le luci si sono spente. Per questo i Salmi, e l’intera Bibbia, sebbene consapevoli della capacità umana di compiere il male, proclamano che non sarà il male ad avere l’ultima parola. Dagli abissi della sofferenza e del dolore, il cuore del credente grida: «io confido in te, Signore; dico: ‘tu sei il mio Dio’ (Sal 31, 14).

3. Ebrei e Cristiani condividono un immenso patrimonio spirituale, che deriva dall’autorivelazione di Dio. I nostri insegnamenti religiosi e le nostre esperienze spirituali esigono da noi che sconfiggiamo il male con il bene. Noi ricordiamo, ma senza alcun desiderio di vendetta né come un incentivo all’odio. Per noi ricordare significa pregare per la pace e la giustizia e impegnarci per la loro causa. Solo un mondo in pace, con giustizia per tutti, potrà evitare il ripetersi degli errori e dei terribili crimini del passato.

Come Vescovo di Roma e Successore dell’Apostolo Pietro, assicuro il popolo ebraico che la Chiesa cattolica, motivata dalla legge evangelica della verità e dell’amore e non da considerazioni politiche, è profondamente rattristata per l’odio, gli atti di persecuzione e le manifestazioni di antisemitismo dirette contro gli ebrei da cristiani in ogni tempo e in ogni luogo. La Chiesa rifiuta ogni forma di razzismo come una negazione dell’immagine del Creatore intrinseca ad ogni essere umano (cfr Gn 1, 26).

4. In questo luogo di solenne memoria, prego ferventemente che il nostro dolore per la tragedia sofferta dal popolo ebraico nel XX secolo conduca a un nuovo rapporto fra Cristiani ed Ebrei. Costruiamo un futuro nuovo nel quale non vi siano più sentimenti antiebraici fra i Cristiani o sentimenti anticristiani fra gli Ebrei, ma piuttosto il reciproco rispetto richiesto a coloro che adorano l’unico Creatore e Signore e guardano ad Abramo come il comune padre nella fede (cfr Noi Ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, V).

Il mondo deve prestare attenzione al monito che proviene dalle vittime dell’Olocausto e dalla testimonianza dei superstiti. Qui a Yad Vashem, la memoria è viva e arde nel nostro animo. Essa ci fa gridare:

«Se odo la calunnia di molti, il terrore mi circonda;
io confido in te, Signore; dico: ‘tu sei il mio Dio’
(Sal 31, 13-15).


Giovedì, 23 Marzo 2000  © Copyright 2000 – Libreria Editrice Vaticana

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LA FEDE NELL’ AT

LA FEDE NELL’ AT

La Fede nell’Antico Testamento        

di Giovanni Odasso, biblista

 

La “riscoperta” dell’AT come Scrittura può essere correttamente annoverata tra le acquisizioni più sintomatiche del cammino compiuto dalla Chiesa grazie all’influsso del Concilio Vaticano II. Per capire l’importanza di questo dato è illuminante la nota pagina dei discepoli di Emmaus, nella quale il Risorto “incominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui” (Lc 24,27). In realtà, l’insieme dei testi che con espressione poco adeguata siamo abituati a chiamare AT hanno rappresentato, per le prime generazioni cristiane, la totalità delle Scritture. Ad esse solo in una fase successiva fu aggiunta, con uguale dignità, l’ultima parte del “canone cristiano”: gli scritti dei Vangeli e degli “Apostoli”, ossia il NT.


Nel presente lavoro, che si accosta all’AT come Scrittura, si esamineranno, a partire dalla pagina di Is 7, alcune testimonianze significative per cogliere le prospettive con cui il tema della fede è presente nella Torah, nei Profeti e nei Salmi, ossia secondo l’espressione di Lc 24,27, “in tutte le Scritture”.


1. La testimonianza di Is 7,9b 

La prima testimonianza espressiva riguardante la fede è contenuta nel cap.7 dell’opera che porta il titolo canonico di “Visione di Isaia figlio di Amoz” (cf. Is 1,1). Gli eventi narrati rinviano al 734 a. C., quando il re degli Aramei e il re d’Israele si erano coalizzati per spodestare il re Acaz, re di Giuda, e porre sul trono di Gerusalemme un personaggio favorevole ai loro progetti politici. Il profeta Isaia annuncia ad Acaz, che il piano perseguito dai suoi avversari è destinato al fallimento. Dopo l’annuncio assiomatico: “ciò non si realizzerà e non avverrà” (Is 7,7b) il profeta aggiunge la solenne sentenza:

’im  lô’  ta’ămînû  kî  lô’ tē’āmēnû

    
se non accettate la sicurezza certamente non avrete nessuna sicurezza


Nella lingua ebraica questo detto profetico si presenta con una particolare elaborazione stilistica, in quanto è costruito con due forme verbali che derivano dalla stessa radice ’āmēn. Nel suo significato letterale la radice ’āmēn denota “essere stabile, incrollabile”. Presa in senso traslato, metaforico, la stessa radice connota la “stabilità interiore”, ossia la “sicurezza” che l’uomo sperimenta verso la persona nella quale può riporre pienamente la propria fiducia. E’ la sicurezza descritta dal Sal 131, dove l’orante dichiara: “Io sono tranquillo e sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia” (v. 2). Il bimbo svezzato gioisce di essere in braccio a sua madre, non perché ha bisogno del latte materno, ma perché desidera gustare la tenerezza rassicurante che gli viene dall’amore della madre.

La forma verbale ta’ămînû, conosciuta come Hifil o tema H della radice ’āmēn, è usata proprio in questo senso metaforico, per cui la prima parte del detto di Isaia si può tradurre “se non accettate la sicurezza”. Il contesto lascia chiaramente intendere che si tratta della sicurezza che viene dalla Parola che il Signore annuncia per mezzo del profeta, parola che contiene una luminosa promessa: “ciò non si realizzerà e non avverrà”.

Anche la forma verbale tē’āmēnû, conosciuta come Nifal o tema N, ricorre qui secondo la sua accezione metaforica e connota la situazione di chi si sente interiormente nella sicurezza. Di conseguenza, la seconda parte del detto isaiano si può tradurre “non sarete nella sicurezza” oppure “non avrete nessuna sicurezza”.
L’affermazione del profeta Isaia appare ora nella profonda ricchezza del suo messaggio. Il detto profetico (’im lô’ ta’ămînû kî lô’ tē’āmēnû) può essere reso nel seguente modo: “se non accettate la sicurezza (che viene dalla parola del Signore; la sicurezza che, in definitiva, è il Signore stesso), non avrete nessuna sicurezza”.

Per il nostro tema, che riguarda “la fede nell’AT”, è importante osservare che la LXX traduce il detto isaiano con l’espressione “se non credete (pisteuete) nemmeno comprenderete”. Al verbo ta’aminû, che significa propriamente “accettare la sicurezza che viene dal Signore”, corrisponde il verbo pisteuete della LXX. Ciò significa che la fede, nell’orizzonte della LXX, è l’atteggiamento dell’uomo che accetta la sicurezza che gli viene dal Signore e dalla sua Parola. Solo in questa accoglienza, in questo “ascolto”,con cui si apre alla Parola di Dio, per aderirvi esistenzialmente, l’uomo trova la sicurezza della propria sussistenza, della propria vita. Ponendo la fede nel Signore in stretta correlazione con la promessa della comprensione, la LXX si muove nella prospettiva teologica della tradizione sapienziale, prospettiva che è sottesa alla canonizzazione della Torah (cf. Dt 4,5-8), e ha ricevuto uno sviluppo sinfonico nel salmo 119. In definitiva, il vocabolario della fede, testimoniato dalla LXX (pisteuo,pistis), si comprende nella prospettiva delineata dal detto isaiano: “Se non accettate la sicurezza, non avrete nessuna sicurezza”.

Per cogliere la profondità di questa affermazione, è importante rilevare che essa, benché si situi in un orizzonte teologico, presenta una struttura che è verificabile anche a livello antropologico. La fiducia, infatti, è un atteggiamento che scaturisce dall’interiorità del soggetto umano. Certamente la fiducia può essere favorita, ostacolata o addirittura soffocata dalle circostanze e dalle persone dell’ambiente in cui si vive, ma se l’uomo non si apre personalmente verso l’altro, percepito come “tu”, non potrà mai uscire dal suo “io” e sviluppare la capacità di costruire relazioni positive, basate sulla reciproca fiducia e sul reciproco impegno. Il detto di Is 7,9b, in questa ottica, suppone implicitamente che l’uomo, come si apre agli altri esseri umani, può aprirsi al Signore e alla Parola della sua promessa.
Questa osservazione mostra chiaramente che la fede non può essere ritenuta una sovrastruttura imposta dall’esterno, e quindi estranea all’essere umano. Essa, al contrario, costituisce il massimo sviluppo, reso possibile dall’intervento divino, delle potenzialità insite nell’uomo creato a immagine e somiglianza del suo Creatore. “La fede – come scrive Abraham Heschel – è un atto dell’uomo che trascendendo se stesso, risponde a colui che trascende il mondo”. In quanto apertura alla trascendenza, la fede implica sempre l’esperienza della liberazione con la quale il Signore impedisce che la speranza dei suoi figli sia ostacolata o, addirittura, soffocata. Essa rappresenta per l’uomo la sicurezza fondamentale della propria vita e della propria storia. Se non accetta questa sicurezza, che viene da Dio e che, in definitiva, è Dio stesso, l’uomo non potrà mai trovarsi nella condizione libera e liberante della salvezza.

Questi rilievi permettono di intravedere che il detto di Isaia contiene un messaggio le cui virtualità, in un certo senso, sono inesauribili. L’affermazione isaiana,come abbiamo visto, suppone la struttura profonda dell’uomo nel suo “essere che si apre verso l’altro” e, nel contempo, afferma che questa struttura antropologica si realizza pienamente quando l’uomo si apre a Dio ed entra in dialogo e in comunione con lui. Di conseguenza, la fede è sempre un evento che si compie nella misura con cui l’uomo, ogni giorno, si lascia raggiungere dal Signore e si apre a lui, lasciandosi interpellare dalla sua Parola. Per questo la fede lungi dal portare l’uomo ad abdicare alla propria umanità ne sviluppa al massimo le incommensurabili potenzialità. La grandezza dell’uomo è direttamente proporzionale alla sua fede.

Alla luce dei precedenti rilievi possiamo raccogliere, in modo sintetico, l’insieme dei dati principali che sono contenuti in questo testo:

(1) La fede è un atteggiamento esistenziale dell’uomo che accetta la sicurezza che viene dal Signore e dalla Parola della sua promessa.
 
(2) La fede, in questa prospettiva, è essenzialmente orientata al futuro della salvezza e, quindi, sviluppa nel credente la sicurezza che i disegni iniqui dell’uomo non potranno prevalere: “ciò non si realizzerà e non avverrà” (cf. Is 7,7b). Ne consegue che la fede è inseparabile dalla fiducia nel Signore, dalla confidenza in lui, dal rifugiarsi in lui, dall’attesa di lui e della sua Parola.

(3) La fede non si risolve unicamente in un atteggiamento soggettivo: essa suppone l’ascolto della parola del Signore, parola che è mediata non solo dal profeta (come si suppone evidentemente in Is 7), ma anche dal culto (come attesta lo stesso racconto della vocazione del profeta in Is 6) e, infine, dalla Torah scritta e dall’insieme di tutte le Scritture.

(4) La fede, di conseguenza, è un evento che avviene all’interno di una comunità e nella vitalità della sua tradizione.

(5) La fede, infine, ha un risvolto esistenziale: accettare la promessa del Signore implica ed esige che il credente sviluppi le scelte esistenziali che sono orientate da questa promessa e coerenti con essa.

Difficilmente si potrà esagerare l’importanza di questo messaggio e l’influsso da esso esercitato nella tradizione di Israele e nella formazione della Scrittura. In realtà, questo influsso raggiunge, attraverso l’opera deuteronomistica, la stessa Torah e, in un certo senso, informa la globalità delle Sante Scritture.

2. La fede nell’opera deuteronomistica  

Con l’espressione “opera deuteronomistica” la scienza veterotestamentaria connota un’opera letteraria che inizia con i primi tre capitoli del Deuteronomio, inserisce subito dopo il Deuteronomio originario contenuto all’interno degli attuali cc.5-28, prosegue con gli ultimi capitoli del Deuteronomio e continua con i libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re. Si tratta di un insieme letterario che fu composto al tempo di Giosia, verso il 620 a.C., e ricevette significative rielaborazioni durante l’esilio babilonese e ancora nel primo periodo postesilico. Un’opera così ampia e plurisecolare è ovviamente maturata in una scuola che ha saputo custodire e sviluppare i grandi ideali del Deuteronomio, ideali che Von Rad ha sintetizzato nella celebre espressione: “un solo Dio, un solo popolo, un solo tempio”. Questa scuola, come si evince dall’esame della sua opera, fu notevolmente vicina anche agli ideali dei profeti, in particolare al messaggio di Isaia e di Geremia.
L’influsso del tema isaiano della fede all’interno della scuola deuteronomistica emerge anzitutto dal fatto che la stessa narrazione di Is 7 porta i segni inconfondibili dello stile e della concezione propri dell’opera deuteronomistica. In particolare, però, due testimonianze di quest’opera meritano di essere qui ricordate per la loro notevole rilevanza. Esse si trovano, significativamente, all’inizio dell’opera (Dt 1,32) e verso la sua conclusione (2 Re 17), venendo a formare un’inclusione che delinea l’orizzonte nel quale il Deuteronomista delinea e sviluppa la propria concezione teologica.

2.1. Il testo di Dt 1,29-35
 

All’inizio dell’opera deuteronomistica, nel primo capitolo del Deuteronomio,l’autore presenta Mosè che, in un solenne discorso, ricorda al popolo l’itinerario percorso dall’Oreb a Qadesh Barnea per esortarlo a intraprendere il camino che lo conduce nella terra promessa. In un primo momento il popolo chiede a Mosè che mandi esploratori, che possano offrire adeguate informazioni sulla situazione che incontreranno. Di ritorno dalla loro missione, gli esploratori portano un messaggio pieno di incoraggiante fiducia: “Buona è la terra che il Signore, nostro Dio, sta per darci” (Dt 1,25). Tuttavia, nonostante questa assicurazione, il popolo non accoglie il comando del Signore e mormora contro di lui: “Voi non voleste andare e vi ribellaste al comando del Signore, vostro Dio; mormoraste nelle vostre tende e diceste: Il Signore ci odia; per questo ci ha fatto uscire dal paese d’Egitto per darci in mano agli Amorrei e sterminarci» (cf. Dt 1,26-27). Le parole che, in questa situazione, Mosè rivolge al popolo sono fondamentali per cogliere il significato della fede nell’ottica teologica dell’opera deuteronomistica: Io vi dissi: «Non spaventatevi e non temeteli. Il Signore, vostro Dio, che vi precede, egli stesso combatterà per voi, come ha fatto insieme a voi sotto i vostri occhi in Egitto e nel deserto, dove hai visto che il Signore, il tuo Dio, ti ha portato come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto, finché siete arrivati in questo luogo».
Nonostante questo, non avete creduto nel Signore vostro Dio, che vi precedeva nel vostro cammino per cercarvi un luogo dove piantare le tende: di notte nel fuoco per mostrarvi la via per la quale dovevate andare, e di giorno nella nube. Il Signore udì le vostre parole, si adirò gravemente e giurò dicendo: «Nessuno degli uomini di questa malvagia generazione vedrà il buon paese che ho giurano di dare ai vostri padri» (Dt 1,29-35).


Se si tiene conto del contesto nel quale si trova inserito, il brano appena citato permette i seguenti rilievi:

(1) Colui che crede sperimenta la liberazione dallo spavento e dal “timore” degli uomini. In altri termini, la fede sviluppa la sicurezza che Dio libera i suoi fedeli dalle potenze che si oppongono al suo disegno salvifico.

(2) In questa visuale, il “credere” implica un’apertura al Signore da parte del fedele che confida in lui e custodisce nel proprio cuore una costante fiducia nella presenza liberatrice del suo Dio. La correlazione essenziale tra la fede e la fiducia è evidenziata dal Deuteronomista mediante l’unione del vocabolario della fede alle formule di incoraggiamento: “Non temete”, “non spaventatevi”, “siate forti”.

(3) Il credere implica, inoltre, che il fedele tenga viva la memoria dei numerosi interventi salvifici di Dio. Il ricordo dei prodigi compiuti dal Signore assicura che la fede nella potenza liberante ed elevante di Dio non si basa sull’illusione soggettiva del sentimento, ma sulla verità degli eventi salvifici che caratterizzano l’esperienza “storica” del popolo del Signore e costituiscono l’orizzonte dell’esperienza esistenziale dei credenti.

(4) Il credere, in definitiva, connota l’atteggiamento dell’uomo che trova in Dio la sicurezza del proprio futuro e quindi si apre alla sua Parola, l’accoglie nel suo cuore e la attua nella propria esistenza. Accogliendo mediante la fede la Parola, l’uomo realizza il cammino verso il pieno compimento dell’esodo salvifico di Dio. La Parola accolta, infatti, fa uscire l’uomo dalle angustie della sua schiavitù e lo orienta verso il futuro della promessa, verso la libertà sperimentata nella “conoscenza” della salvezza del Signore.

Inversamente, il testo delinea il carattere negativo dell’incredulità, della non-fede. L’uomo che, per la sua incredulità, non accetta la sicurezza che viene dalla Parola del Signore, rimane prigioniero della propria paura e del proprio spavento. In particolare, nell’opera deuteronomistica la mancanza di fede è considerata con la categoria teologica della ribellione. A causa dell’incredulità l’uomo consuma la propria ribellione e per questo rimane prigioniero della propria schiavitù e incapace di camminare verso il futuro della sua libertà. Ciò che rinchiude l’uomo nella schiavitù del proprio “io” non è l’ascolto della voce del Signore, l’esperienza autentica di Dio, ma è la paura che lo rende ribelle al Signore e alla sua Parola.

2.2. La testimonianza di 2 Re 17,13-14

Un’altra testimonianza significativa della fede è collocata verso la fine dell’opera deuteronomistica, nella pagina di 2 Re 17,7-23. Qui l’autore sospende la narrazione degli eventi dei due regni per sviluppare un’ampia riflessione teologica, che riguarda la fine del regno di Israele e, nel contempo, prepara la narrazione della caduta di Gerusalemme.
La testimonianza, contenuta in 2 Re 17,13-15, recita:

Il Signore, per mezzo di tutti i profeti e di tutti i veggenti, aveva esortato Israele e Giuda dicendo: «Convertitevi dalle vostre vie malvagie, e osservate i miei comandamenti e i miei precetti, seguendo in tutto l’insegnamento (torah) che io ho mandato ai vostri padri, e che ho inviato a voi per mezzo dei miei servi, i profeti».
Ma essi non ascoltarono, anzi resero dura la loro cervice, come la cervice dei loro padri, i quali non avevano creduto nel Signore, loro Dio. Rifiutarono le sue leggi e la sua alleanza, che aveva concluso con i loro padri, e le istruzioni che aveva dato loro;
seguirono il nulla e sono diventati essi stessi nullità.
 

Secondo questa riflessione tutta la storia dei regni di Israele e di Giuda è presentata come un irrigidimento colpevole del popolo verso il Signore (“resero dura la loro cervice”). Si tratta di un irrigidimento che ha perpetuato nel tempo il comportamento dei padri, ossia il comportamento della generazione del deserto, che in questa pagina è descritto come un “non credere”.
Tre rilievi emergono dalla lettura del testo. Anzitutto le varie resistenze del popolo alla Parola, che il Signore aveva fatto risuonare con costante premura per mezzo dei profeti, sono viste come altrettante espressioni della mancanza di fede.

Conseguentemente, la non-fede è intesa qui come chiusura alla parola profetica e, quindi, alla stessa alleanza con il Signore.
In secondo luogo l’incredulità caratterizza non solo la storia del popolo che vive nella terra promessa, ma anche la storia dei padri, ossia la generazione dell’esodo e del deserto. Secondo il deuteronomista, quindi, tutta la storia di Israele, dall’esodo in poi, è attraversata dalla colpa dell’incredulità.
Infine, la fede è compresa nella sua intrinseca connessione con la conversione.
Questa affermazione suppone che Dio offre sempre al suo popolo, e quindi a ogni fedele, la possibilità di uscire dalla sua infedeltà per percorrere il cammino dell’ascolto del Signore nella fedeltà alla sua alleanza.
In questo contesto la non-fede si configura, inversamente, come un rifiuto della conversione e quindi un rifiuto dell’alleanza e degli impegni ad essa inerenti. A questo proposito è interessante rilevare che il testo presenta l’incredulità del popolo con la stessa frase di Ger 2,5: “seguirono il nulla e sono diventati essi stessi nullità”. Il riferimento al testo di Ger 2,5 è una preziosa conferma della concezione deuteronomistica che abbiamo individuato. In realtà, mentre nel testo di Geremia la frase riguarda l’agire dei padri (“quale ingiustizia trovarono in me i vostri padri per allontanarsi da me?”), in 2 Re 17,14 la stessa espressione è riferita all’agire dei “figli di Israele che avevano peccato contro il Signore, loro Dio” (2 Re 17,7).

In definitiva, secondo la redazione finale dell’opera deuteronomistica il peccato che caratterizza il periodo fallimentare della monarchia è quello del quale si erano già resi colpevoli i padri, vale a dire la generazione dell’esodo e del deserto. Questo peccato consiste appunto nella mancanza di fede o, detto con altri termini, nel rifiuto della parola dei profeti, nella rinuncia a seguire il Signore per confidare nei propri idoli. Conseguentemente, l’incredulità si annida nel cuore dell’uomo che rifiuta di convertirsi al Signore.  

Dall’insieme di questi dati risulta che la storia del popolo dell’alleanza è caratterizzata dall’accoglienza del Signore nella fede o dalla ribellione a lui nell’incredulità.

Che questa prospettiva deuteronomistica sia da collegare all’influsso esercitato dalla pagina di Is 7 trova una conferma esplicita nel secondo libro delle Cronache. In quest’opera, che si colloca intorno al 300 a.C., il Cronista testimonia la stretta correlazione del vocabolario della fiducia e dell’incoraggiamento, propri dell’opera deuteronomistica, con il vocabolario della fede, tipico del profeta Isaia. La concezione del Cronista su questo tema appare in modo evidente nell’esteso racconto della vittoria di Giosafat (2 Cr 20,1-30), racconto che non ha parallelo nel libro dei Re e che è stato giustamente definito “un bel esempio di un midrash storico”.
In questa pagina si sente l’eco di motivi familiari al Deuteronomista quando Giosafat si rivolge al popolo con le parole:

“Così dice a voi il Signore: Non temete, non spaventatevi davanti a questa moltitudine immensa, perché la guerra non riguarda voi, ma Dio” (2 Cr 20,15; cf. Dt 20,1-4).

Nel contempo si avverte l’eco di Is 7,9b quando Giosafat, nel momento della partenza per la guerra, si rivolge ancora al popolo con le seguenti parole:

“Ascoltatemi, Giuda e abitanti di Gerusalemme! Credete (ha᾽ămînû) nel Signore, vostro Dio, e avrete sicurezza (wetē᾽āmēnû) ; credete (ha᾽ămînû) nei suoi profeti e riuscirete (wehaṣlîḥû)” (2 Cr 20,20).

L’esortazione “credete nel Signore e avrete sicurezza” è formulata mediante la citazione di Is 7,9b. Questo riferimento intertestuale è una prova inequivocabile dell’influsso che il detto isaiano ha continuato ad esercitare all’interno della tradizione di Israele. Il fatto che l’invito alla fede nel Signore sia accompagnato dall’esortazione a credere nei suoi profeti, rispecchia nuovamente la concezione tipica dell’opera deuteronomistica. Sempre in questo versetto, in virtù del parallelismo, la sicurezza della fede si trova connessa con la promessa della “riuscita”. Si tratta di una promessa che, evidentemente, non va intesa nel senso di un successo temporale, ma nella linea del Servo del Signore che, come recita Is 52,12a, “avrà successo”, perché è sostenuto dal Signore nell’adempimento della sua missione fino alla morte. Proprio per questo la morte del Servo poté essere compresa come un evento salvifico che avrebbe raggiunto e trasformato il popolo.
Questa prospettiva teologica, che, inaugurata da Isaia, si sviluppa nell’opera deuteronomistica e trova la propria conferma nel Cronista, costituisce l’orizzonte necessario per comprendere adeguatamente l’importanza della fede all’interno della stessa redazione finale, canonica, della Torah.

3. La fede nella Torah

Due testi, situati in punti strutturalmente nevralgici, mostrano che il tema della fede occupa una posizione speciale nella Torah. L’influsso della prospettiva deuteronomistica appare evidente nei versetti conclusivi di Es 14, il capitolo che narra la prodigiosa liberazione di Israele e che svolge, quindi, una funzione narrativa e teologica fondamentale all’interno della stessa Torah. Il testo che ci interessa è costituito dai vv. 30-31:
 
In quel giorno il Signore salvò Israele dalla mano degli Egiziani, e Israele vide gli Egiziani morti sulla rive del mare. Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva operato contro gli Egiziani, e il popolo temette il Signore e credette nel Signore e in Mosè suo servo.
 

L’esperienza dell’esodo, secondo il messaggio di questi versetti, pone l’uomo in un rapporto di adorazione verso il Signore (“temette il Signore”) e nel contempo lo orienta a vivere questo rapporto nella fede, quindi mediante una profonda fiducia in lui.

Anche in questo testo la fede, che apre l’uomo a confidare nel Signore, suppone un’esperienza di salvezza, come è indicato con l’immagine degli Egiziani morti sulla riva del mare. Questa immagine sarebbe fraintesa se fosse presa alla lettera; essa deve essere compresa nel suo significato simbolico, che a sua volta suppone una concezione propriamente escatologica. La fede apre il credente al futuro di Dio, quel futuro di salvezza in cui scomparirà ogni forma di violenza e di oppressione. Qui appare evidente che la fede è abbandono confidente nel Dio dell’esodo, nel Dio che mostra la grandezza della propria forza salvifica liberando il suo popolo dalle potenze che lo hanno ridotto in schiavitù e sono addirittura giunte a decretarne lo sterminio.

L’espressione relativa al popolo che “credette nel Signore e in Mosè suo servo” si muove nell’orizzonte della scuola deuteronomistica, per la quale la fede nel Signore si sviluppa nell’ascolto della sua Parola, mediata dai suoi servi i profeti. Nel testo di Es 14 Mosè è compreso come il rappresentante sommo della profezia e, quindi, come il mediatore della Torah.
Questa affermazione, in concreto, suppone che la fede nel Signore non ha solo una dimensione personale, che riguarda ogni fedele della famiglia di Dio (“il popolo credette nel Signore”), ma è anche dotata di una dimensione comunitaria. Essa suppone l’ascolto dei profeti e l’ascolto della Torah, ossia l’ascolto della Scrittura.
 
La dimensione personale della fede, l’accettare la sicurezza che viene dal Signore e dalla sua Parola, è posta in risalto in Gen 15,6, una pagina nella quale si percepisce non solo l’influsso della tradizione deuteronomistica, ma anche l’influsso della cosiddetta opera sacerdotale.

L’opera sacerdotale, sorta nel periodo dell’esilio, aveva posto al centro della propria concezione la berît, intesa non come alleanza bilaterale (tra il Signore e il suo popolo), ma come promessa gratuita, fatta liberamente da Dio ad Abramo, Isacco e Giacobbe, promessa che la stessa infedeltà di Israele non avrebbe mai potuto annullare. Con il concetto teologico della promessa gratuita, “eterna”, di Dio l’opera sacerdotale sviluppa uno straordinario messaggio di speranza.

Questo concetto infatti, alla luce dell’infedeltà del popolo all’alleanza, suppone che il Signore, per adempiere il suo disegno di salvezza, non abbandonerà il popolo nella sua infedeltà, ma lo rinnoverà con il suo perdono. Si tratta del perdono che trova nella festa dell’espiazione (Lv 16) e nella celebrazione del giubileo (Lv 25) non solo i momenti cultuali della sua solenne celebrazione, ma anche il suo significato altamente teologico di rinnovata comunione con il Signore e con i fratelli “nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella tenerezza” (cf. Os 2,21).

Il testo recente di Gen 15, che suppone la tradizione deuteronomistica e la concezione sacerdotale della berît intesa come promessa, presenta Abramo raggiunto dall’esperienza profetica del Signore. Questo aspetto, proveniente dalla scuola deuteronomistica, è chiaramente indicato dalla formula dell’evento della parola (“venne ad Abramo questa parola del Signore”: cf. Gen 15,1.4), formula la cui origine è appunto da ricercare nell’ambito delle esperienze proprie dei profeti. La “Parola del Signore” giunge ad Abramo che nonostante l’età avanzata è senza figli e, dunque, vive nell’amara consapevolezza che per lui non si è adempiuta la promessa della discendenza. Proprio in questa situazione di “sterilità” l’esperienza del Signore dischiude ad Abramo il futuro della salvezza con la promessa di una discendenza numerosa come le stelle del cielo.

La reazione di Abramo a questa parola è racchiusa nella densa affermazione di Gen 15,6: “Abramo credette al Signore che glielo accreditò come giustizia”. Questa frase testimonia il significato profondo che la fede aveva acquistato all’interno della tradizione di Israele. Avere fede, come scrive Brüggemann commentando questo testo, significa “credere nel futuro di Dio e vivere certi di quel futuro anche se il presente è di morte”.

L’affermazione che Dio “accreditò questo come giustizia” ha lo scopo di presentare Abramo come modello dei “giusti” la cui voce si sente nei Salmi. E’ la voce degli ‘anawîm, di coloro che hanno scelto di vivere nella fedeltà al Signore e alla sua Parola, anche a costo dell’emarginazione economica, sociale, anche a costo della persecuzione, alla quale potevano andare incontro per la loro scelta.

La fedeltà al Signore e alla Torah, che si manifesta nella coerenza della vita, attinge il suo valore dalla fede. Effettivamente, la fede rende l’uomo “giusto” perché segna la fine di ogni forma di legalismo e nel contempo orienta il credente a sviluppare la propria esistenza in sintonia con la Parola del Signore e a fondare l’impegno della propria coerenza sulla sicurezza della fedeltà divina.

Un dato di notevole interesse, infine, è rappresentato dal fatto che proprio questa comprensione della fede, attestata nel testo recente di Gen 15, presenta una forte connessione con la concezione che affiora nella redazione finale del Salterio e nel messaggio della profezia escatologica.

4. La fede nell’orizzonte dei Salmi e della profezia escatologica

Un’eco dell’importanza di Is 7 e del suo influsso appare in alcuni salmi che, richiamandosi alla concezione deuteronomistica, e alla sua ricezione nella Torah, vedono nella mancanza di fede la causa dell’insuccesso del popolo nel cammino del suo esodo.
Il Sal 78, p. es., presenta la “ribellione del popolo”, che mormora contro il Signore e dubita della sua potenza, con la seguente descrizione:

“Potrà forse Dio preparare una mensa nel deserto?” (v. 19bc).

Nonostante il prodigio dell’acqua, scaturita dalla roccia (v. 20a), il popolo continua nella sua mormorazione:

“Potrà forse dare anche pane e preparare carne per il suo popolo?” (v. 20b).

Come si può facilmente intravedere, questi versetti si richiamano al racconto del prodigio dell’acqua di Es 17,1-7 e al racconto della manna e delle quaglie di Es 16, offrendone un commento, un midrash, alla luce del Sal 23: Il Signore è il pastore che guida alla vita. Anche se sta attraversando la valle oscura della prova, l’orante ha la certezza che il Signore è con lui, gli prepara una mensa, lo libera dai suoi nemici e lo chiama al banchetto della liberazione, della gioia, della salvezza. La colpa del popolo, secondo il Sal 78, consiste proprio nel fatto che non vive con quella fiducia, che ha il suo modello esemplare nell’orante del Sal 23, al contrario è giunto fino a dubitare della stessa potenza del Signore. Proprio per questo la ribellione del popolo è delineata sinteticamente con l’espressione: “Non credettero in Dio e non confidarono nella sua salvezza” (v. 22).

Accanto ai motivi già incontrati nel Deuteronomista, qui affiora una sottolineatura nuova. In questo passo il credere in Dio è posto esplicitamente in parallelo con il verbo “confidare nella sua salvezza”. Ciò che mette in pericolo l’esistenza del popolo di Dio non sono i suoi nemici, ma la sua paura, la sua incredulità.

In particolare, secondo il Sal 78, la fede nel Signore sviluppa l’attesa della liberazione, l’attesa della mensa della salvezza, un’attesa che si fonda sulla sicurezza della Parola e si concretizza, come in Gen 15, in un abbandono confidente al disegno di Dio e alla sua potenza.

La connessione della fede con l’attesa della mensa preparata dal Signore costituisce un motivo che unisce questo testo all’orizzonte escatologico di Is 25,6-8, dove si annuncia che il Signore prepara sul monte Sion il banchetto dell’alleanza per tutti i popoli. L’attesa della mensa diventa attesa della salvezza escatologica che è preparata da Dio per tutte le genti.

Questo orizzonte universale della fede trova una esplicita conferma nel testo di Gn 3,5 che si muove ugualmente in una prospettiva escatologica. La pericope di Gn 3,4-10 inizia presentando Giona mentre si inoltra nella città di Ninive predicando: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (v. 4). Subito dopo il testo descrive la reazione degli abitanti con la frase: “I Niniviti credettero in Dio” (v. 5). La profondità di questa frase appare nel fatto che i Niniviti non si limitarono a credere all’annuncio della fine imminente di Ninive, ma “credettero” alla parola del profeta e quindi credettero in Dio che ha la potenza di realizzare il suo disegno nella storia degli uomini e dei popoli. E’ interessante rilevare che anche in questo testo, dove si parla non di Israele, ma delle genti, il “credere in Dio” apre a quella speranza che non è un’evasione dalla realtà, ma un’energia che trasforma l’uomo e lo orienta al Signore. Gli abitanti di Ninive infatti, secondo la narrazione biblica, iniziano un digiuno penitenziale che coinvolge tutti. Lo stesso re con un apposito editto invita il popolo a rivolgersi a Dio “con forza”:

“Ognuno si converta dalla sua via malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani. Chi sa che Dio non cambi, si ravveda, deponga la sua ira ardente non si penta e metta da parte la sua ira ardente e così noi non periamo!” (Gn 3,8-9).

L’espressione “chi sa che non cambi, si ravveda” ricorre anche in Gl 2,14. L’invito alla conversione con digiuno e suppliche, che nel testo di Gioele è diretto a Israele, qui è rivolto agli abitanti di Ninive, dunque al mondo delle genti. Nel futuro escatologico anche le genti crederanno, si convertiranno e sperimenteranno la salvezza di Dio.

Nel testo di Is 25,6-8 la promessa escatologica del banchetto preparato per tutte le genti è riletta nella prospettiva della risurrezione. Questa rilettura “apocalittica” è attestata dalla frase iniziale del v. 8, con cui si annuncia che “il Signore eliminerà la morte per sempre”. Proprio questa frase mostra che, quando si sviluppa la fede nella risurrezione, l’annuncio escatologico della salvezza di tutte le genti diventa attesa del compimento delle promesse di Dio, compimento che riguarda tutti i popoli e che si realizzerà nel “mondo che deve venire”, nel mondo eterno del regno di Dio.

Particolarmente significativa e articolata, in questo contesto, è la testimonianza del Sal 116. L’orante, che ha sperimentato la liberazione da un imminente pericolo di morte a causa dei suoi nemici (cf. v. 8), richiama l’esperienza di quel momento con le parole: “Ho creduto, anche quando dicevo: Sono troppo infelice” (v.10). Nell’ora della prova, nel momento in cui avvertì che “ogni uomo è menzognero” (v. 11), l’orante di questo salmo non è venuto meno alla fiducia nel Signore, al contrario ha perseverato nella fede e nell’amore.

La domanda “Che cosa renderò al Signore per tutti i benefici che mi ha fatto?” serve per introdurre il motivo del sacrificio di ringraziamento, o tôdâh, sacrificio che era offerto da chi fosse stato liberato da un grave pericolo di morte. L’orante, liberato dalla morte, può adempiere il voto formulato nell’ora del pericolo: “Alzerò il calice della salvezza e proclamerò il Nome del Signore”. Egli offre il sacrificio di ringraziamento insieme a coloro che formano il popolo dei “fedeli”, coloro che si rifugiano nel Signore e confidano nella sua parola e nella sua salvezza. Il momento centrale del sacrificio di ringraziamento è costituito dal rito in cui chi è stato liberato dalla morte, alla presenza di coloro che fanno parte della sua vita, alza il “calice della salvezza” e “proclama il nome del Signore”, vale a dire proclama la salvezza che il Signore ha operato, esaudendo la sua preghiera e liberandolo dalla morte.

Gli scritti rabbinici testimoniano che quando si sviluppò la fede nella risurrezione il sacrificio di ringraziamento assunse un significato nuovo. Si comprese, infatti, che il vero sacrificio tôdâh non è quello che si celebra in questo mondo per ringraziare Dio che ha guarito da una grave malattia o ha liberato da nemici che volevano la morte del credente, ma è la tôdâh della risurrezione.

“Nel mondo che deve venire finiranno tutti i sacrifici,
ma il sacrificio tôdâh non finirà in eterno;
finiranno anche tutti i canti,
ma i canti tôdâh non finiranno in eterno”.

Nel Sal 116 questo significato nuovo, che suppone la fede nella risurrezione, è attestato dall’affermazione “Agli occhi del Signore è preziosa la morte dei suoi fedeli” (v. 14).

La fede appare qui come l’atteggiamento dell’uomo che affida tutto se stesso nelle mani del Signore, sicuro che la stessa morte non costituisce il momento della distruzione della sua esistenza, ma l’evento “prezioso” agli occhi di Dio, il momento in cui il Signore indica al fedele il sentiero della vita e lo introduce nella sazietà della gioia davanti al suo Volto (cf. Sal 16,11).

In questo orizzonte apocalittico si muove anche la redazione finale del Sal 22. Questa, infatti, legge l’esperienza della liberazione dai nemici, che porta l’orante a lodare il Signore nell’assemblea dei fratelli (cf. Sal 22,20-26), e la reinterpreta nella luce della salvezza definitiva, quando “coloro che dormono sotto terra”, liberati per sempre dalla morte, si prostreranno nell’adorazione e nella lode davanti al Signore (cf. Sal 22,29-30).

Il futuro della salvezza, al quale il credente è orientato dalla Parola del Signore, si manifesta in tutta la sua pienezza con la confessione del “mondo che deve venire”, il mondo della risurrezione.
La risurrezione costituisce, per chi crede nel Signore e nella sua Parola, la sicurezza per antonomasia. E’ la sicurezza che libera l’uomo dall’orizzonte della morte, nella quale si trova, e lo orienta all’esperienza di quella comunione con il Signore che avrà il suo compimento definitivo nella gloria del Regno.

5. Rilievi e prospettive

La presentazione del tema della fede all’interno dell’AT lascia intravedere una ricchezza e una profondità straordinarie. L’attenzione prestata allo sviluppo diacronico del tema consente ora di delineare sinteticamente le grandi linee che sono offerte dalla lettura sincronica, canonica, della Scrittura, ossia dall’insieme della Torah, dei Profeti e degli Scritti. Queste linee si raccolgono attorno a tre nuclei o modelli: il modello Abramo, il modello isaiano-deuteronomistico, il modello escatologico.

Il “modello Abramo” sottolinea che la fede è un’esperienza profetica del Signore; è l’esperienza dell’uomo che è raggiunto dalla Parola e ad essa si apre. In quanto accoglienza profetica della Parola-promessa del Signore, la fede libera dalla paura causata dall’angustia e dalla “sterilità” del presente. La paura, soffocando ogni prospettiva di futuro, da un lato rende la comunità priva di vita, come un campo di ossa aride (cf. Ez 37,1-14; specialmente il v. 11) e, dall’altro, genera le strutture inique della violenza e dell’oppressione (cf. Es 1,8-10). Liberando dalla paura, la fede dischiude il futuro della liberazione, della speranza, della solidarietà e fraternità. La fede apre a quel futuro che è impossibile all’uomo, ma che Dio, nella fedeltà alla sua Parola, realizzerà.

Il “modello isaiano-deuteronomistico” prospetta la fede come l’atteggiamento dell’uomo che accetta la sicurezza che viene dal Signore attraverso la parola dei profeti e attraverso la parola della Torah, personificata in Mosè. In questo nucleo la fede si presenta come elemento che caratterizza tutto il popolo dell’esodo e dell’alleanza. La stessa “conversione”, elemento eminentemente personale della fede, appare anche nella sua dimensione comunitaria: tutto il popolo è chiamato a convertirsi dalla ribellione dell’incredulità per aprirsi all’ascolto della parola del Signore e porre solo in lui la sicurezza della propria fiducia e della propria speranza.

Il “modello escatologico”, infine, conferisce alla fede l’orientamento verso quel futuro nel quale si realizzeranno pienamente e definitivamente le promesse della salvezza divina. Questo futuro è delineato con due peculiarità che lo caratterizzano. Anzitutto esso riguarda il popolo di Israele che nel tempo escatologico costituirà la comunità che non si ribella alla Parola e, proprio per questo, formerà il popolo “mite e umile che si rifugia nel nome del Signore” (Sof 3,12) e vive nella gioia della salvezza divina.

In secondo luogo il futuro della salvezza escatologica riguarda non solo Israele, ma tutte le genti. Con un linguaggio simbolico-teologico si afferma che tutti i popoli non solo saliranno al monte del tempio del Signore per accogliere la Torah e camminare nelle vie di Dio (cf. Is 2,2-4), non solo parteciperanno al banchetto dell’alleanza con il Signore (cf. Is 25,6-8), ma formeranno anch’essi il popolo del Signore e l’opera delle sue mani (cf. Is 19,23-25).

Un dato che ci sembra acquisito, in base alla presentazione diacronica dei testi relativi alla fede, è che questi nuclei o modelli, interagendo tra di loro, permeano l’insieme dell’AT. Così, p. es., il “modello isaiano-deuteronomistico” s’incontra nella solenne conclusione di Es 14; il “modello Abramo” è presente in modo speciale nei Salmi; il “modello escatologico”, a sua volta, costituisce l’orizzonte nel quale si venne configurando la forma canonica della Torah, dei Profeti e di tutte le Scritture. La promessa escatologica dell’effusione dello Spirito del Signore su ogni uomo (cf. Gl 3,1-5 e At 2,17-21) costituisce una preziosa conferma che la fede è intrinsecamente connessa con l’esperienza profetica del Signore. 

Nel tempo della salvezza escatologica, quando lo Spirito profetico sarà effuso su ogni uomo, tutti confideranno nel Signore e vivranno nella luce della sua Parola.

La profonda interconnessione di questi tre nuclei o modelli permette di comprendere che, a partire da quando si sviluppò l’attesa del mondo della risurrezione, questa rappresentò il loro punto di convergenza, il vertice verso il quale è protesa la fede testimoniata dalle Scritture.

In altri termini, la risurrezione costituisce l’orizzonte nel quale la fede trova la meta ultima della sua apertura fiduciosa al Signore. Le Scritture annunciano proprio questo futuro di salvezza e ad esso orientano il credente perché rende la propria esistenza nella storia un cammino costante verso la pienezza della vita e della libertà nella comunione eterna con il Dio vivente. 

Giovanni Odasso



 


Questo testo, completo di Note per l’approfondimento, è su: “Lateranum” n. 1/2012
Rivista quadrimestrale della Facoltà di S. Teologia della Pontificia Università Lateranense. In essa i docenti della Facoltà propongono i frutti della loro attività di ricerca e di insegnamento nell’ottica del sapere interdisciplinare. Negli ultimi decenni la rivista ha contribuito in modo determinante al profilarsi delle linee di pensiero di quella che può a buon diritto definirsi “scuola lateranense”.

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Israele:dialogo ebraico-cristiano

Israele:dialogo ebraico-cristiano

All’ombra dei pini di Galilea, un’energia di pace

 

In Israele si è concluso il primo viaggio interreligioso per il dialogo-ebraico cristiano. Un evento importante e unico, alla presenza di cardinali, vescovi e rabbini, culminato col bosco piantato in memoria del Cardinal Martini 

 

Di Marina Diwan

Dalle spiagge di Tel Aviv alle mura di Gerusalemme, alle rive del lago di Tiberiade. Dal contatto diretto con la modernità d’Israele alla pionieristica fondazione dello Stato ebraico, alla storia biblica più antica e comune alle religioni monoteistiche. Fino alla preghiera comune davanti al Kotel e gli alberi in memoria del Cardinale Carlo Maria Martini, piantati su una ventosa collina della Galilea.

Si è concluso ieri Ebrei e cristiani in viaggio, un “pellegrinaggio interreligioso” che dal 9 al 18 giugno ha visto un gruppo di circa un centinaio di persone visitare Tel Aviv, Gerusalemme e la Galilea. Un evento storico fortemente voluto da rav Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale rabbinico del Centro Nord Italia e Rabbino emerito di Milano, per dare futuro a quel dialogo ebraico-cristiano che fu costruito e condiviso con il Cardinale Martini, scomparso il 31 agosto scorso. E dedicare così all’amico, grande amante di Israele dove visse per diversi anni, una foresta di 5000 alberi nei pressi del lago di Tiberiade, con il patrocinio del Keren Kayemet Leisrael. Sfortunatamente, per motivi di salute, rav Laras non ha potuto prendere parte al viaggio, che è stato comunque un grande successo a testimonianza che i progetti bene ispirati dai loro ideatori sono figli capaci di camminare con le loro gambe. A dirigere l’iniziativa si sono distinti con generosità i suoi collaboratori: rav Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica d’Italia, e l’assistente di rav Laras, Vittorio Robiati Bendaud, le due anime guida del percorso.

«La novità di questo evento», spiega Bendaud, «sta nell’incontro di ebrei e cristiani credenti e ortodossi che viaggiano per condividere un’avventura di conoscenza reciproca e per pregare insieme», e «senza snaturare l’identità di ciascuno, mantenendo il rispetto delle diversità reciproche», precisa rav Richetti.
 
Obiettivo? Far conoscere la realtà ebraica israeliana a un gruppo di cristiani provenienti da tutta Italia, cristiani che erano in netta maggioranza. Gli ebrei invece, una decina, principalmente da Milano, hanno assolto al compito di ciceroni, per rispondere alle infinite curiosità e domande dei compagni di viaggio. «Volevamo comprendere le ragioni dell’altro vivendo gomito a gomito, avere occhi aperti e cuore disponibile. Questo forse è stato il vero valore di questo viaggio», ha dichiarato monsignor Gianantonio Borgonovo, arciprete del Duomo di Milano, accompagnatore spirituale del gruppo fin dal primo giorno in Israele. Il duetto religioso caratterizzato dalla sua voce dolce e pacata e dalla prorompente verve canora di rav Richetti ha accompagnato la comitiva per tutto l’itinerario, una “strana coppia” davvero ben assortita. Due pullman hanno percorso le strade di Israele per seguire un programma fitto di appuntamenti.

Insieme al Kotel

Tutto è iniziato a Tel Aviv, due giorni alla scoperta dell’antica Yaffo, della realtà israeliana moderna e della storia pionieristica della fondazione dello Stato ebraico, tra la casa di Ben Gurion e la visita alla Indipendence Hall, in cui si sono rivissuti i momenti eroici del manipolo di ebrei che, sfidando la minaccia della Lega Araba e delle cautele delle autorità internazionali, hanno dichiarato l’indipendenza dello Stato di Israele. Non poteva mancare l’incontro molto apprezzato dal gruppo con rav Israel Meir Lau, il Rabbino capo di Tel Aviv-Yaffo, emerito Rabbino capo di Israele, protagonista della famosa stretta di mano con il Pontefice Giovanni Paolo II che, nelle intenzioni di Papa Wojtila doveva servire a “togliere il tappeto sotto ai piedi” di chi ancora professa l’antico antigiudaismo religioso da 50 anni azzerato dal Concilio Vaticano II.

Sono seguiti cinque giorni a Gerusalemme, dove si è passati dalle antiche pietre della città vecchia alla realtà più scottante. Inedita e sorprendente la visita alla Corte Suprema, capolavoro dell’architettura contemporanea progettato dall’architetto Ada Carmi per manifestare attraverso le forme e lo spazio lo spirito di giustizia della sapienza ebraica che deve ispirare chi è chiamato ad amministrarla. Significativa la sua posizione elevata rispetto alla Knesset, il Parlamento, a sancire che il potere degli uomini politici deve essere assoggettato alle regole di Giustizia, argomento che ha comprensibilmente toccato il pubblico italiano, colpito anche dalla passione politica e progettuale del sindaco di Tel Aviv, Ron Hudai e del vicesindaco di Gerusalemme, Naomi Tsur, che abbiamo incontrato nei palazzi delle rispettive municipalità.

Proprio nella città Santa l’incontro tra ebrei e cristiani ha vissuto il suo momento più significativo e commovente: la preghiera comune davanti al Kotel, il Muro del pianto. A dare man forte a rav Richetti, a Bendaud e a Monsignor Borgonovo sono giunti, dopo pochi giorni, il Cardinale Francesco Coccopalmerio, Presidente del Pontificio Consiglio per i testi legislativi, rav Eugene Korn dell’International Jewish Commitee e del Center for the Jewish-Christian Understanding & Cooperation, il teologo valdese Gioacchino Pistone e il professor David Meghnagi, docente di psicologia e direttore del Master Internazionale sulla Shoah. Insieme a tutto il gruppo di viaggiatori hanno recitato i Tehillim-Salmi ad alta voce, in ebraico e in italiano, una preghiera comune, un’energia di pace molto potente. Il tutto sotto lo sguardo stupito dei chassidim presenti, dapprima curiosi e poi compiaciuti per il significato simbolico dell’evento. Altro momento di condivisione religiosa si è avuto durante le celebrazioni dello shabbat nella cornice del Tempio italiano a Gerusalemme, che riporta gli arredi della antica sinagoga di Conegliano Veneto. A Yerushalaim non è mancata la visita a Yad Vashem con la presentazione di David Meghnagi che ha sottolineato come il museo con il suo “giardino dei giusti” e l’intera realtà di Israele siano la testimonianza della capacità profonda del popolo ebraico di saper perdonare e guardare al futuro con fede rinnovata.

Le stesse radici

Momento atteso e culminante di tutto il viaggio è stato l’approdo in Galilea, domenica 16 giugno. Sulla collina di Giv’at Avni, nei pressi del lago di Tiberiade, sventolavano le bandiere di Israele, d’Italia e del KKL per piantare gli alberi in memoria del Cardinale Martini, uomo del dialogo con gli ebrei, che amava chiamare “i nostri fratelli maggiori”. Gli è stata dedicata oggi una foresta di 5000 alberi con il patrocinio del Keren Kayemet Leisrael. Oltre alle personalità già citate al Kotel, erano presenti Maris Martini, sorella del Cardinale presente durante tutto il viaggio, suo figlio Giovanni, Raffaele Sassun, presidente del Kkl Italia, Silvio Tedeschi del KKl di Milano, il portavoce del Rabbino capo d’Israele rav Angel Kreiman e l’ambasciatore italiano in Israele, Francesco Talò. La foresta accoglie lo spirito del Cardinale che avrebbe voluto essere seppellito in Israele.

Simbolo di vita e futuro per veder crescere con gli alberi anche il dialogo tra ebrei e cristiani, momento chiave del viaggio, testimonianza di un’amicizia e affetto, la cerimonia ha rappresentato il culmine dell’itinerario che si è concluso con le visite a Cafarnao, Sephoris e Cesarea.
 
«Condividere un’esperienza di conoscenza reciproca, pregare insieme e onorare la memoria del Cardinal Martini»; «ritrovare le nostre radici bibliche, vivere la vita ebraica, lo Shabbat e comprendere in quale contesto si muoveva Gesù»; «contattare l’intelligenza e l’impegno di un popolo che ha costruito questo paese con creatività e determinazione»… Questi solo alcuni dei commenti dei partecipanti, tutti coinvolti nel cammino di dialogo, amicizia e comprensione reciproche sempre più diffusi nel mondo cristiano ed ebraico. A proposito del quale possiamo traslare le parole che furono di Theodor Herzel: “se vorrete non sarà un sogno”.

Fonte: mosaico-cem.it
Gerusalemme, 19/06/2013 

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BENVENUTO!

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Abbiamo un nuovo Papa: Francesco.


“PER AMORE DI GERUSALEMME”, partecipa alla gioia comune per l’elezione a vescovo di Roma di papa Francesco e chiede al Signore di benedire abbondantemente il suo ministero di pastore della Chiesa universale.

CITTA’ DEL VATICANO, 14 Marzo 2013 –  Papa Francesco scrive al Rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Rav Riccardo Di Segni e lo invita all’inaugurazione del suo pontificato.

Il giorno stesso della sua elezione a Sommo Pontefice, papa Francesco ha inviato una lettera al Rabbino Capo di Roma, Riccardo Di Segni, inviandogli il proprio “cordiale saluto” e invitandolo all’inaugurazione del suo pontificato che avverrà martedì prossimo, 19 marzo.

“Confidando nella protezione dell’altissimo – scrive il Santo Padre – spero vivamente di poter contribuire al progresso che le relazioni tra ebrei e cattolici hanno conosciuto a partire dal Concilio Vaticano II in uno spirito che possa essere sempre più in armonia con la volontà del creatore”.

A sua volta il Rabbino Di Segni ha fatto pervenire al neoeletto Vescovo di Roma, i propri auguri di buon pontificato, con l’auspicio che Francesco “possa guidare con forza e saggezza la Chiesa cattolica per i prossimi anni”.

Il Rabbino ha poi sottolineato che i rapporti tra Chiesa Cattolica ed ebraismo – in particolare con la comunità ebraica di Roma – “hanno compiuto dei passi importanti”.

Di Segni ha infine manifestato la speranza che “si possa proseguire il cammino nel segno della continuità e delle buone relazioni”.

Fonte: Zenit.org

ISRAELE, FELICITAZIONI DAL RABBINATO DI GERUSALEMME

Un messaggio di felicitazioni è stato inviato a papa Francesco dal rabbinato di Gerusalemme, ossia dai rabbini Shlomo Amar (sefardita) e Yona Metzger (ashkenazita).
 
”Negli ultimi 12 anni – rileva il Rabbinato – viene condotto un dialogo ricco e fruttuoso fra il Rabbinato di Israele e il Vaticano su questioni di massimo significato – come il divieto di invocare il nome del Signore per la giustificazione di azioni terroristiche; la santità della vita; la santità della cellula familiare, e via dicendo. In questo dialogo abbiamo raggiunto successi significativi”.

Il Rabbinato rileva che questo dialogo è stato portato avanti grazie anche all’incoraggiamento e al coinvolgimento dei due Papi precedenti. ”Il Rabbinato – si legge in un comunicato – è sicuro che papa Francesco, le cui buone relazioni con gli ebrei sono ben note, andrà avanti nello stesso spirito, curerà e rafforzerà le relazioni con Israele e con il popolo ebraico”.

Fonte: Shalom7

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