Cari amici,
la mia malattia sta avanzando inesorabilmente ed è pertanto mio desiderio, seppur brevemente, consegnarvi alcuni pensieri.
Durante la mia vita ho potuto vivere in prima persona il tramontare e il sorgere di mondi diversi, con inquietudini e speranze. La distruzione degli ebrei d’Europa ha sfiorato la mia esistenza, segnandola per sempre. Misteriosamente, grazie alla forza e al coraggio di mia madre, il Santo e Benedetto ha voluto che sopravvivessi agli orrori e alle ceneri della Shoah. Nel 1948 è nato lo Stato di Israele, dopo un lavorio pluridecennale, alacre e devoto: ricordo la commozione, l’euforia e il senso di stupore di quei giorni. Ricordo anche le angosce che assalirono me, come molti altri tra noi, sino all’ora presente, in relazione alla sopravvivenza del nostro piccolo Stato. Mi ricordo distintamente il mio primo viaggio in Israele e la sorpresa, la felicità e l’orgoglio di leggere le scritte in ebraico, dai cartelli stradali alle insegne nei mercati, segno di un mondo vivo e vitale, seppur sottoposto a continua, durissima prova. In queste decadi, nel silenzio o nella nescienza delle più grandi Nazioni, abbiamo assistito alla persecuzione e alla cacciata di centinaia di migliaia di ebrei dai Paesi islamici, ove molti di costoro risiedevano da secoli, talora ben prima dell’avvento dell’Islàm. Cosa non meno inaudita, molti ebrei ed io abbiamo visto nascere e continuare a esistere il dialogo ebraico-cristiano. Oggi sono testimone del sorgere di una nuova ondata di antisemitismo (specie nella sua ambigua forma di antisionismo), del tradimento delle sinistre e del rapido declino intellettuale e morale della civiltà occidentale. Nuove sfide e nuove angosce si stanno proiettando sul nostro mondo. Dell’Europa occidentale che abbiamo conosciuto non sappiamo quanto rimarrà e molto muterà, con disillusioni e, forse, speranze: la strada particolare di noi ebrei, come sta già avvenendo in Francia e Belgio, nonché nel consesso internazionale, è probabile che sia in salita e strettissima. Tuttavia, oggi la nostra esistenza non è più, ringraziando il Santo e Benedetto e l’impegno di moltissimi, in totale balia delle Nazioni.
Il nostro ebraismo italiano è giunto a una fase accelerata di consunzione e inaridimento. Il nuovo Statuto è già vecchio e privo di vigore nella pratica, sicché servirà quanto prima che vi sia un congresso straordinario, che duri qualche giorno, ove siedano assieme rabbini, presidenti di comunità e consiglieri, giovani, lucidi analisti ebrei dalla Francia e da Israele, membri delle kehillòt italiane in Eretz Israel. È necessario e quanto mai urgente pensare, senza romanticismi, senza compiacimenti esterni e senza voler indorare pillola alcuna, a un’architettura nuova per le sfide prossime che solleciteranno l’ebraismo italiano dopo un cammino secolare. Ho già scritto che è doveroso coinvolgere gli ebrei italiani di Eretz Israel, le giovani famiglie che lì si sono formate e chi, in vario modo, anima e guida le loro comunità. Non farlo sarebbe folle e suicida, nonché ingiusto nei loro e nei nostri riguardi.
L’alto livello di polemica e di astio che percorre trasversalmente le nostre realtà comunitarie è un nostro grave fallimento: si tratta di una tentazione che dobbiamo sentirci obbligati a vincere, perché i tempi non sono facili. Una delle mitzvòth più misteriose e difficili da comprendersi è quella dell’ahavàth Israel, dell’amore responsabile degli ebrei per gli altri ebrei e per l’intero popolo ebraico. Questa grandissima mitzvah deve essere riscoperta in tutta la sua forza, la sua eloquenza e la sua creatività da parte di noi ebrei italiani. La mitzvah dell’ahavàth Israel non consiste in alcun modo in un generale buonismo per cui, per amor di coesistenza, tutte le opinioni sono buone, in una prospettiva di ora in ora sempre più accomodante, specie in relazione all’osservanza religiosa. Se compresa in una prospettiva teorica, questa mitzvah rischia di sfuggirci, specie a fronte dello spirito dell’epoca. Dobbiamo invece declinarla, in relazione agli ebrei di Italia e di Eretz Israel, praticamente, concretamente. Molte nostre famiglie sono povere o in forte difficoltà, molte giovani coppie non hanno stipendi che permettano loro di progettare un futuro ebraico, molti singoli sono abbandonati a loro stessi, moltissimi sono ignoranti delle nozione basilari dell’ebraismo e si sentono respinti -a torto o a ragione- dalle nostre istituzioni, molte famiglie hanno problemi ben noti legati ai matrimoni misti, moltissimi giovani emigrano all’estero perché qui non c’è lavoro. È urgente che si ribalti la rappresentatività e l’auto-coscienza istituzionale dell’ebraismo italiano su questi temi, invece che continuare a essere vittime di malumori tra potentati familiari, pruderie di circoli intellettuali avulsi dal reale e insofferenti rispetto a molti drammi e paure della nostra gente, vanità di alcuni pronti a compiacere per essere compiaciuti. Abbiamo tutti imparato a nostre spese che una concezione intellettualistica dell’ebraismo, dal religioso al culturale e al politico, porta all’invecchiamento e al deteriorarsi delle nostre realtà comunitarie. La sfida è enorme e, che ci piaccia o meno, saremo obbligati a raccoglierla: prego chi ha ruoli di responsabilità di non tardare e di avere coraggio, anche se si sente non all’altezza della situazione o da quest’ultima oppresso. Sono certo che l’ebraismo italiano, con tenacia, saprà tener testa a queste difficoltà.
Per quello che riguarda il Tribunale Rabbinico da me presieduto, che serve le Comunità più in difficoltà e sofferenti, ossia quelle piccole e medie, ho ritenuto di affidarlo al mio allievo Rav David Sciunnach shlita, con l’intesa convergente di altri rabbini, sia italiani (in particolare Rav Elia Richetti, Rav Roberto Della Rocca, Rav Adolfo Locci e Rav Alberto Sermoneta) sia israeliani (Rav Eliahu Abargel e Rav Zalman Nechemia Goldberg). Voglia il Santo e Benedetto accompagnare questo difficile e delicatissimo lavoro, vegliando sulle nostre Comunità. In particolare, prego le persone la cui ebraicità è stata dichiarata da questo Tribunale ad aver coscienza del dono loro fatto, con tutte le responsabilità e gli oneri che ne conseguono, invitandole a rafforzare la loro vita ebraica in seno alle comunità di appartenenza.
Mi rivolgo alle dirigenze istituzionali e rabbiniche, perché le ore di lingua e storia ebraica vengano il più possibile aumentate nelle nostre scuole, le quali in qualche modo dovrebbero, almeno come opzione possibile e praticabile, poter ospitare i ragazzi delle comunità più piccole, con tutoring e incentivi.
In quanto figlio della Shoah e cittadino europeo mi è cara la Giornata della Memoria, che è però anch’essa arrivata a una crisi di senso e di comunicazione. Le attuali stantie forme celebrative sono in consunzione ed è necessario ripensarla quanto prima, specie in relazione all’attualità dell’antisemitismo contemporaneo, che è fenomeno vasto e complesso, con fila eterogenee e inquietanti. Anzitutto è necessario riportare, almeno per noi ebrei italiani, la Shoah in Italia, insistendo certo sui luoghi europei peggiori della “soluzione finale”, ma ancor più insistendo sul nostro tessuto nazionale italiano: ossia la Risiera di S. Sabba, il campo di Bolzano, Fossoli e Borgo S. Dalmazzo. È necessario che su questi luoghi italiani rifletta l’Italia e l’ebraismo italiano. Ed è necessario ricordare, anche a taluni nostri intellettuali e storici che contribuiscono all’aumento dell’assordante confusione, che l’antisemitismo non è né una forma particolare di razzismo o intolleranza, né, tantomeno, risulta confinato ai soli totalitarismi di “destra”. L’antisemitismo è specifico, e una comprensione “ermeneutica” e “estensiva” di quest’incubo è sempre fragile e da problematizzare. Come già ricordai, l’unico collegamento estensivo reale riguarda, per precise ragioni storiche e ideologiche, il solo Genocidio Armeno, fatto che, lungi dall’incrinare l’unicità della Shoah, rende ancor più profondi e inquietanti entrambi questi terribili baratri della storia umana.
In questi ultimi anni ho ritenuto di aiutare il dialogo ebraico-cristiano con una serie di critiche controcorrente. Per alcuni ciò è stato destabilizzante e fastidioso, alienandomi delle simpatie. Pazienza. Sono convinto della giustezza delle critiche mosse, tese solo al suo progredire e al suo correggersi, nonostante essere soli sia spesso difficile da sostenere ed estremamente scomodo. Purtroppo, confermando la vacuità che contraddistingue gran parte dell’esperienza umana, tale dialogo resta esposto a tentazioni e a miseri giochi di potere di individui che amano presentarsi come irreprensibili, ognora inclusivi e “pronti a fare la storia”. Se tale Dialogo vuole continuare (come è imperativo che sia!), dovendo essere in primo luogo non tanto teoretico ma pratico, deve progressivamente uscire dalle ambiguità su Israele, dato che è lì che vive la maggior parte del nostro Popolo ed è sempre lì che si sta edificando, tra disillusioni e speranze, il futuro di un ebraismo in ampia parte post-diasporico. Tale dialogo dovrebbe sempre più coinvolgere inoltre gli ebrei religiosi, cosa difficoltosa da entrambe le parti, dato che l’altro soggetto è in sé religioso, ossia i cristiani.
Si spera che vi siano slanci nuovi, entusiastici e autentici.
Il mio carattere non facile mi ha permesso di sopravvivere ad alcuni gravi rovesci della mia vita, causandomi tuttavia anche incomprensioni e problemi. Nel corso del mio servizio alle nostre Kehillòth, mi auguro, tuttavia, di aver aiutato e rinfrancato più persone di quante possano essere state quelle respinte dalle mie difficoltà caratteriali, a cui vanno le mie scuse.
Che il Santo e Benedetto tutti Vi protegga e accompagni, facendo splendere il Suo volto su di Voi e benedicendo il Suo Popolo con la pace.
Rav Giuseppe Laras