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Talmud: “Se in città c’è una pestilenza ritira i tuoi passi”, cioè: chiuditi in casa.

Talmud: “Se in città c’è una pestilenza ritira i tuoi passi”, cioè: chiuditi in casa.

Che cosa ci racconta la Torà sul modo in cui il popolo ebraico affrontava le malattie epidemiche? E qual è la linea guida dell’ebraismo per la protezione della salute individuale e collettiva?

Gam zeh ya’avor, “anche questo passerà”

Oltre alla prescrizione di ordine generale: wenishmartem meod le-nafshoteykem (Devarim 4,4) per cui dobbiamo salvaguardare le nostre persone, i Maestri del Talmud affermano: chamira sakkanta me-issura (Chullin 10), “il rischio per la salute richiede maggior attenzione e rigore comportamentale rispetto agli stessi normali divieti della Torah”. Ma credo che il passo talmudico più significativo per la nostra presente situazione sia il seguente: dever ba-‘ir – kannès raglekha (Bavà Qammà 60): “se in città c’è una pestilenza ritira i tuoi passi”, cioè: chiuditi in casa. Il Talmud porta ben tre versetti a supporto di questa raccomandazione. Il primo è tratto dal racconto dell’ultima piaga d’Egitto, la morte dei primogeniti, scoppiata a mezzanotte. Agli Ebrei fu richiesto di non uscir di casa fino al mattino (Shemot 12,27), perché una volta che il morbo colpisce potrebbe non fare più distinzioni. E qualora pensassimo che la restrizione è in vigore solo di notte arriva un altro versetto: “Va’ popolo mio, entra nelle tue stanze, chiuditi la porta dietro finché non sarà passata l’ira Divina” (Yesha’yahu 26,20). E qualora pensassimo ancora che potrebbe farci bene uscire insieme agli altri per vincere il timore all’interno, ricordiamoci che “fuori uccide la spada (della malattia) mentre nelle stanze si ha paura” (Devarim 32,25). Le recenti disposizioni governative sono dunque perfettamente in linea con la nostra Tradizione e vanno rispettate. Chi esce di casa senza motivo non si limita a infrangere una legge dello Stato. Infrange la Halakhah.

Voglio fare un’ulteriore puntualizzazione. Vedere le nostre Sinagoghe chiuse addolora profondamente. Ma se queste sono le disposizioni vigenti non dobbiamo per forza ostinarci a fare come se nulla fosse. Confidare in H. non significa trascurare ciò che umanamente siamo tenuti a fare per preservare la salute nostra e degli altri. La Tefillah pubblica e la lettura della Torah, per quanto le abbiamo a cuore, sono solo prescrizioni rabbiniche. Tutti ricordiamo Monsignor Mazenta dei Promessi Sposi che durante la peste manzoniana moltiplicava le processioni e così diffondeva la malattia. Si racconta che R. Israel Salanter, fondatore del movimento Mussar, durante l’epidemia di colera che infestò la Lituania nel 1848, la mattina di Kippur nella Grande Sinagoga di Vilna recitò il Qiddush come se fosse stato un Sabato normale e si mise a mangiare davanti a tutti, nello sconcerto generale.

Che cosa possiamo imparare come ebrei da una situazione di emergenza sanitaria come quella che stiamo attraversando?

Dobbiamo mettere a frutto questo periodo di clausura. Anzitutto approfittarne per studiare. In secondo luogo dobbiamo imparare a sviluppare la dimensione domestica dell’Ebraismo, che per molti si è persa nel tempo, dal momento che quella comunitaria, cui siamo ormai abituati ad affidarci, non è al momento disponibile. Ma soprattutto dobbiamo imparare a gestire prudenza e pazienza. Pazienza verso l’esterno per via della reclusione forzata. Ma anche e soprattutto pazienza verso l’interno, verso gli altri membri della famiglia con cui ora siamo costretti a condividere spazi e tempi assai aldilà delle nostre normali abitudini. Il Ben Ish Chay di Baghdad raccomanda che in particolare la vigilia di Rosh ha-Shanah i coniugi non litighino sui preparativi della festa, perché è questa l’ennesima prova cui li sottopone l’istinto del Male e occorre resistergli. Perché proprio a Rosh ha-Shanah? Perché è Yom ha-Din, il giorno del giudizio. Anche noi oggi stiamo vivendo un periodo di Din, in cui siamo sottoposti al Giudizio Divino. Lo stesso Ben Ish Chay racconta che portava al dito un anello su cui era incisa la scritta: Gam zeh ya’avor, “anche questo passerà”. Nei periodi lieti lo guardava ed evitava l’orgoglio pensando che le gioie terrene hanno comunque un limite. Ma anche nei periodi tristi lo osservava e diceva: “anche questo passerà” e lascerà spazio a qualcosa di differente. Le-fum tza’arà agrà, “in misura della sofferenza sarà la ricompensa”. Confidiamo che il buon D. abbia in serbo per il nostro futuro un bene che ora non siamo minimamente in grado di immaginare. Che possiamo udire solo buone notizie!

di Rav Alberto Somekh

Tratto da: Mosaico – cem.it

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Testamento spirituale di Rav Giuseppe Laras

Testamento spirituale di Rav Giuseppe Laras

Cari amici,

la mia malattia sta avanzando inesorabilmente ed è pertanto mio desiderio, seppur brevemente, consegnarvi alcuni pensieri.

Durante la mia vita ho potuto vivere in prima persona il tramontare e il sorgere di mondi diversi, con inquietudini e speranze. La distruzione degli ebrei d’Europa ha sfiorato la mia esistenza, segnandola per sempre. Misteriosamente, grazie alla forza e al coraggio di mia madre, il Santo e Benedetto ha voluto che sopravvivessi agli orrori e alle ceneri della Shoah. Nel 1948 è nato lo Stato di Israele, dopo un lavorio pluridecennale, alacre e devoto: ricordo la commozione, l’euforia e il senso di stupore di quei giorni. Ricordo anche le angosce che assalirono me, come molti altri tra noi, sino all’ora presente, in relazione alla sopravvivenza del nostro piccolo Stato. Mi ricordo distintamente il mio primo viaggio in Israele e la sorpresa, la felicità e l’orgoglio di leggere le scritte in ebraico, dai cartelli stradali alle insegne nei mercati, segno di un mondo vivo e vitale, seppur sottoposto a continua, durissima prova. In queste decadi, nel silenzio o nella nescienza delle più grandi Nazioni, abbiamo assistito alla persecuzione e alla cacciata di centinaia di migliaia di ebrei dai Paesi islamici, ove molti di costoro risiedevano da secoli, talora ben prima dell’avvento dell’Islàm. Cosa non meno inaudita, molti ebrei ed io abbiamo visto nascere e continuare a esistere il dialogo ebraico-cristiano. Oggi sono testimone del sorgere di una nuova ondata di antisemitismo (specie nella sua ambigua forma di antisionismo), del tradimento delle sinistre e del rapido declino intellettuale e morale della civiltà occidentale. Nuove sfide e nuove angosce si stanno proiettando sul nostro mondo. Dell’Europa occidentale che abbiamo conosciuto non sappiamo quanto rimarrà e molto muterà, con disillusioni e, forse, speranze: la strada particolare di noi ebrei, come sta già avvenendo in Francia e Belgio, nonché nel consesso internazionale, è probabile che sia in salita e strettissima. Tuttavia, oggi la nostra esistenza non è più, ringraziando il Santo e Benedetto e l’impegno di moltissimi, in totale balia delle Nazioni.

Il nostro ebraismo italiano è giunto a una fase accelerata di consunzione e inaridimento. Il nuovo Statuto è già vecchio e privo di vigore nella pratica, sicché servirà quanto prima che vi sia un congresso straordinario, che duri qualche giorno, ove siedano assieme rabbini, presidenti di comunità e consiglieri, giovani, lucidi analisti ebrei dalla Francia e da Israele, membri delle kehillòt italiane in Eretz Israel. È necessario e quanto mai urgente pensare, senza romanticismi, senza compiacimenti esterni e senza voler indorare pillola alcuna, a un’architettura nuova per le sfide prossime che solleciteranno l’ebraismo italiano dopo un cammino secolare. Ho già scritto che è doveroso coinvolgere gli ebrei italiani di Eretz Israel, le giovani famiglie che lì si sono formate e chi, in vario modo, anima e guida le loro comunità. Non farlo sarebbe folle e suicida, nonché ingiusto nei loro e nei nostri riguardi.

L’alto livello di polemica e di astio che percorre trasversalmente le nostre realtà comunitarie è un nostro grave fallimento: si tratta di una tentazione che dobbiamo sentirci obbligati a vincere, perché i tempi non sono facili. Una delle mitzvòth più misteriose e difficili da comprendersi è quella dell’ahavàth Israel, dell’amore responsabile degli ebrei per gli altri ebrei e per l’intero popolo ebraico. Questa grandissima mitzvah deve essere riscoperta in tutta la sua forza, la sua eloquenza e la sua creatività da parte di noi ebrei italiani. La mitzvah dell’ahavàth Israel non consiste in alcun modo in un generale buonismo per cui, per amor di coesistenza, tutte le opinioni sono buone, in una prospettiva di ora in ora sempre più accomodante, specie in relazione all’osservanza religiosa. Se compresa in una prospettiva teorica, questa mitzvah rischia di sfuggirci, specie a fronte dello spirito dell’epoca. Dobbiamo invece declinarla, in relazione agli ebrei di Italia e di Eretz Israel, praticamente, concretamente. Molte nostre famiglie sono povere o in forte difficoltà, molte giovani coppie non hanno stipendi che permettano loro di progettare un futuro ebraico, molti singoli sono abbandonati a loro stessi, moltissimi sono ignoranti delle nozione basilari dell’ebraismo e si sentono respinti -a torto o a ragione- dalle nostre istituzioni, molte famiglie hanno problemi ben noti legati ai matrimoni misti, moltissimi giovani emigrano all’estero perché qui non c’è lavoro. È urgente che si ribalti la rappresentatività e l’auto-coscienza istituzionale dell’ebraismo italiano su questi temi, invece che continuare a essere vittime di malumori tra potentati familiari, pruderie di circoli intellettuali avulsi dal reale e insofferenti rispetto a molti drammi e paure della nostra gente, vanità di alcuni pronti a compiacere per essere compiaciuti. Abbiamo tutti imparato a nostre spese che una concezione intellettualistica dell’ebraismo, dal religioso al culturale e al politico, porta all’invecchiamento e al deteriorarsi delle nostre realtà comunitarie. La sfida è enorme e, che ci piaccia o meno, saremo obbligati a raccoglierla: prego chi ha ruoli di responsabilità di non tardare e di avere coraggio, anche se si sente non all’altezza della situazione o da quest’ultima oppresso. Sono certo che l’ebraismo italiano, con tenacia, saprà tener testa a queste difficoltà.

Per quello che riguarda il Tribunale Rabbinico da me presieduto, che serve le Comunità più in difficoltà e sofferenti, ossia quelle piccole e medie, ho ritenuto di affidarlo al mio allievo Rav David Sciunnach shlita, con l’intesa convergente di altri rabbini, sia italiani (in particolare Rav Elia Richetti, Rav Roberto Della Rocca, Rav Adolfo Locci e Rav Alberto Sermoneta) sia israeliani (Rav Eliahu Abargel e Rav Zalman Nechemia Goldberg). Voglia il Santo e Benedetto accompagnare questo difficile e delicatissimo lavoro, vegliando sulle nostre Comunità. In particolare, prego le persone la cui ebraicità è stata dichiarata da questo Tribunale ad aver coscienza del dono loro fatto, con tutte le responsabilità e gli oneri che ne conseguono, invitandole a rafforzare la loro vita ebraica in seno alle comunità di appartenenza.

Mi rivolgo alle dirigenze istituzionali e rabbiniche, perché le ore di lingua e storia ebraica vengano il più possibile aumentate nelle nostre scuole, le quali in qualche modo dovrebbero, almeno come opzione possibile e praticabile, poter ospitare i ragazzi delle comunità più piccole, con tutoring e incentivi.

In quanto figlio della Shoah e cittadino europeo mi è cara la Giornata della Memoria, che è però anch’essa arrivata a una crisi di senso e di comunicazione. Le attuali stantie forme celebrative sono in consunzione ed è necessario ripensarla quanto prima, specie in relazione all’attualità dell’antisemitismo contemporaneo, che è fenomeno vasto e complesso, con fila eterogenee e inquietanti. Anzitutto è necessario riportare, almeno per noi ebrei italiani, la Shoah in Italia, insistendo certo sui luoghi europei peggiori della “soluzione finale”, ma ancor più insistendo sul nostro tessuto nazionale italiano: ossia la Risiera di S. Sabba, il campo di Bolzano, Fossoli e Borgo S. Dalmazzo. È necessario che su questi luoghi italiani rifletta l’Italia e l’ebraismo italiano. Ed è necessario ricordare, anche a taluni nostri intellettuali e storici che contribuiscono all’aumento dell’assordante confusione, che l’antisemitismo non è né una forma particolare di razzismo o intolleranza, né, tantomeno, risulta confinato ai soli totalitarismi di “destra”. L’antisemitismo è specifico, e una comprensione “ermeneutica” e “estensiva” di quest’incubo è sempre fragile e da problematizzare. Come già ricordai, l’unico collegamento estensivo reale riguarda, per precise ragioni storiche e ideologiche, il solo Genocidio Armeno, fatto che, lungi dall’incrinare l’unicità della Shoah, rende ancor più profondi e inquietanti entrambi questi terribili baratri della storia umana.

In questi ultimi anni ho ritenuto di aiutare il dialogo ebraico-cristiano con una serie di critiche controcorrente. Per alcuni ciò è stato destabilizzante e fastidioso, alienandomi delle simpatie. Pazienza. Sono convinto della giustezza delle critiche mosse, tese solo al suo progredire e al suo correggersi, nonostante essere soli sia spesso difficile da sostenere ed estremamente scomodo. Purtroppo, confermando la vacuità che contraddistingue gran parte dell’esperienza umana, tale dialogo resta esposto a tentazioni e a miseri giochi di potere di individui che amano presentarsi come irreprensibili, ognora inclusivi e “pronti a fare la storia”. Se tale Dialogo vuole continuare (come è imperativo che sia!), dovendo essere in primo luogo non tanto teoretico ma pratico, deve progressivamente uscire dalle ambiguità su Israele, dato che è lì che vive la maggior parte del nostro Popolo ed è sempre lì che si sta edificando, tra disillusioni e speranze, il futuro di un ebraismo in ampia parte post-diasporico. Tale dialogo dovrebbe sempre più coinvolgere inoltre gli ebrei religiosi, cosa difficoltosa da entrambe le parti, dato che l’altro soggetto è in sé religioso, ossia i cristiani.
Si spera che vi siano slanci nuovi, entusiastici e autentici.

Il mio carattere non facile mi ha permesso di sopravvivere ad alcuni gravi rovesci della mia vita, causandomi tuttavia anche incomprensioni e problemi. Nel corso del mio servizio alle nostre Kehillòth, mi auguro, tuttavia, di aver aiutato e rinfrancato più persone di quante possano essere state quelle respinte dalle mie difficoltà caratteriali, a cui vanno le mie scuse.

Che il Santo e Benedetto tutti Vi protegga e accompagni, facendo splendere il Suo volto su di Voi e benedicendo il Suo Popolo con la pace.

Rav Giuseppe Laras

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Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli

Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli

«Benedetto il Signore Dio di Israele»
La preghiera di ebrei e cristiani

«Shimhon il giusto era uno degli ultimi membri della grande assemblea. Egli soleva dire: Su tre cose il mondo sta: sulla Torà, sul culto e sulle opere di misericordia» (Pirqè Avot, I,2). Un commentatore medievale afferma che «ora che non vi è più un culto, il mondo sussiste grazie alla Torà, alle opere di misericordia e alla preghiera, perché la preghiera ha la stessa efficacia del culto (Vitry)» (cf. A. Mello, Detti dei rabbini, 53).
Il XXXVIII incontro nazionale dei Colloqui ebraico-cristiani di Camaldoli vuole affrontare questo tema così centrale e importante per le due tradizioni religiose. L’intento è quello di mettere in luce alcuni aspetti della questione che da una parte possano far emergere le specificità della preghiera nelle due tradizioni religiose, dall’altra cogliere tratti comuni e punti di incontro.
La preghiera è un punto di osservazione particolarmente significativo per comprendere la modalità del credente di stare davanti a Dio, ma anche di porsi in dialogo con il mondo, con le vicende della storia e con gli uomini e le donne che appartengono ad altre tradizioni religiose o non sono credenti. In questo senso, attraverso la comprensione dell’esperienza della preghiera, il modo in cui ebrei e cristiani la vivono e la interpretano, possiamo scorgere vie comuni di dialogo e di impegno nel mondo.
Oltre al tema sviluppato da differenti punti di vista il Colloquio sarà come sempre improntato all’amicizia e alla condivisione di altri momenti di approfondimento. Quest’anno si terrà una serata commemorativa in onore di Paolo De Benedetti, figura fondamentale del dialogo ebraico cristiano in Italia, recentemente scomparso.
A Lui vorremmo dedicare, come già abbiamo fatto con il card. Martini, l’intero Colloquio di quest’anno.

Mercoledì 6 – Domenica 10 dicembre 2017

Mercoledì 6 dicembre

dalle 14.30 accoglienza
21.00    Saluti e presentazione
Matteo Ferrari, Monaco di Camaldoli
Cristiano Bettega, Direttore dell’Ufficio CEI per il Dialogo e
l’Ecumenismo

Relazione di apertura
Pier Francesco Fumagalli, Dottore della Biblioteca
Ambrosiana

Giovedì 7 dicembre

9.00      La preghiera nella Bibbia
Alexander Rofé, Biblista – Gerusalemme
Daniele Garrone, Biblista – Roma

16.00    Tavola rotonda giovani

21.00    Paolo De Benedetti e il dialogo Ebraico-Cristiano
Massimo Giuliani, Filosofo – Trento

Venerdì 8 dicembre

9.00      Il Siddur: la struttura della preghiera ebraica
Rav Amedeo Spagnoletto, Rabbino – Roma
La Birkat ha-minim
Rav Pierpaolo Pinhas Punturello, Rabbino – Roma

12.00    Celebrazione eucaristica

16.00    Accensione lumi di Shabbath

16.15    Gruppi

18.30    Kabbalat Shabbat

21.00    Serata insieme

Sabato 9 dicembre

8.30      Preghiera

11.00    Gruppi

15.00    La preghiera del Venerdì Santo
Daniele Menozzi, Storico – Pisa
Piero Stefani, Teologo – Ferrara

18.00    Lectio biblica a due voci
Rav Elia Richetti – Matteo Ferrari

21.00    Concerto
Cidnewski Kapelle

Domenica 10 dicembre

9.00      Conclusioni
Milena Beux Jäger – Miriam Camerini – Claudia Milani –
Marco Cassuto Morselli

11.30    Celebrazione eucaristica

12.30    Pranzo

Dopo pranzo partenze

Gruppi
I Salmi imprecatori (Donatella Scaiola – Alexander Rofé)
Introduzione alla preghiera di Shabbat (Claudia Milani – Miriam Camerini)
Il Canto sinagogale (Maria Teresa Milano – Rav Elia Richetti – Maurizio Di Veroli)
Fonti ebraiche della preghiera cristiana (Milena Beux Jäger – Shemuel Lampronti)
La preghiera di Yeshua/Gesù(Marco Cassuto Morselli – Gabriella Maestri)
Introduzione al dialogo ebraico cristiano(Carmine Di Sante – Davide Assael)

Alcuni titoli
Beux Jäger Milena, Padre nostro. Una preghiera ebraica, Silvio Zamorani Editore, Torino 2012.
Di Sante Carmine, La preghiera di Israele, (Radici 6), Marietti, Casale Monferrato 1985.
Heinemann  Joseph, La preghiera ebraica, (Spiritualità ebraica), Qiqajon, Magnano (BI) 1986.
Manns, Frédéric, La preghiera di Israele al tempo di Gesù, EDB, Bologna 2017.
Menozzi Daniele, “Giudaica perfidia”. Uno stereotipo antisemita fra liturgia e storia, Il Mulino, Bologna 2014.

Per informazioni e prenotazioni
FORESTERIA DEL MONASTERO DI CAMALDOLI
foresteria@camaldoli.it – 0575556013

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“Gesù è ebreo e lo è per sempre”

“Gesù è ebreo e lo è per sempre”

“La religione ebraica è la religione di Gesù”. (Maria Vingiani)

“Fino a quando l’ebraismo resterà esteriore alla nostra teologia e alla nostra storia, saremo in germe degli antisemiti” (cardinale Roger Etchegaray)

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Consapevolezza

Consapevolezza

Dio, fa’ che comprenda tutto ciò che vedo con la luce della consapevolezza. Aiutami a capire tutto ciò che tocca la mia vita in modo profondo e intimo, in un modo che abbracci sia l’adulto che il bambino dentro di me.  (LM1,20)

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Ebraismo e Chiesa Cattolica a cinquant’anni dalla Nostra Aetate

Ebraismo e Chiesa Cattolica a cinquant’anni dalla Nostra Aetate

“Cattolici: alleati, amici, fratelli” 
Lo storico documento dei rabbini

Pubblicato in Attualità il ‍‍31/08/2017 – 9 אלול 5777

Un passo storico, a distanza di cinquant’anni dalla Nostra Aetate, nell’impegno del Dialogo tra Ebraismo e Chiesa cattolica è stato fatto nelle scorse ore. Il documento (clicca qui per scaricarlo) presentato oggi in Vaticano a papa Bergoglio da una delegazione formata da tre delle principali istituzioni rabbiniche internazionali – la Conferenza dei rabbini europei, il Rabbinato centrale d’Israele, il Consiglio rabbinico d’America – ha infatti un valore fondamentale nei rapporti tra le due realtà. Per la prima volta infatti il rabbinato ortodosso internazionale ha dato un risposta unitaria sul tema del Dialogo interreligioso con la Chiesa cattolica. “Nonostante le inconciliabili differenze teologiche, noi ebrei consideriamo i cattolici come nostri partner, come stretti alleati, amici, fratelli nella comune ricerca di un mondo migliore che sia benedetto dalla pace, dalla giustizia sociale e dalla sicurezza”, si legge nel documento intitolato “Tra Gerusalemme e Roma – Riflessioni sui 50 anni dalla Nostra Aetate” e consegnato al pontefice dalla delegazione di cui facevano parte, tra gli altri, rav Pinchas Goldschmidt, rabbino capo di Mosca e presidente della Conferenza dei rabbini europei, il vicepresidente e rabbino capo di Roma rav Riccardo Di Segni, rav Ratzon Arusi, presidente della Commissione del Rabbinato centrale d’Israele per i Rapporti religiosi, rav Elazar Muskin, presidente del Consiglio rabbinico d’America.

Nel testo, da una parte si ricordano le sofferenze patite per secoli dalla minoranza ebraica a causa dell’antisemitismo di matrice cristiana, dall’altra i grandi passi avanti fatti dalla Chiesa nel riconoscere le proprie responsabilità, culminate nella Nostra Aetate (1965): dichiarazione con cui cinquant’anni fa la Chiesa “ha iniziato un processo di introspezione che ha sempre più spogliato la sua dottrina da qualsiasi ostilità verso gli ebrei, consentendo di far crescere fiducia e amicizia tra le nostre rispettive comunità di fede”, si legge nel documento dei rabbini. “È stato un momento di valenza storica – spiega a Pagine Ebraiche rav Goldschmidt – Mai prima d’ora all’interno del mondo ortodosso si è era dimostrata una tale trasversale unità, con la partecipazione dell’Europa, d’Israele e America, sul tema del dialogo con la Chiesa”. Nel documento – su cui c’è stato un lavoro di due anni- presentato a Bergoglio non si parla solo del passato e dei passi avanti fatti, ma si guarda anche al futuro. “La libertà religiosa è sempre più minacciata ed ebrei e cattolici hanno un doppio fronte comune contro cui combattere: da una parte l’estremismo secolare dall’altro quello religioso”, prosegue il presidente della Conferenza dei rabbini europei, citando da una parte quei movimenti xenofobi che colpiscono le libertà religiose e confondono ad esempio l’Islam come religione con il radicalismo, dall’altra proprio la minaccia della versione estremizzata e distorta dell’Islam, “che fa vittime in Medio Oriente e in tutto il mondo”.

“Il documento rappresenta la possibilità di fare insieme alla Chiesa delle cose concrete nel mondo”, spiega poi rav Di Segni, tra i protagonisti dell’incontro con Bergoglio in mattinata. Incontro che il rav definisce “molto cordiale”. “Ma quello che è importante è ciò che c’è dietro: una parte molto rilevante dell’ebraismo ortodosso ha trovato un accordo e prodotto un testo condiviso sul Dialogo, riparando anche a documenti usciti in passato che contenevano aspetti discutibili dal punto di vista dottrinale”. Il rabbino capo della Capitale rileva poi come la risposta ebraica alla Nostra Aetate sia importante perché “la produzione in campo ebraico sul tema del rapporto con la Chiesa è decisamente minore rispetto a quella nella direzione opposta (la produzione della Chiesa in merito al rapporto con l’ebraismo)”. “La distanza teologica c’è e non può essere colmata”, ribadisce il rav, sottolineando d’altra parte che questa non è un ostacolo per agire su altri fronti.
Sull’altro versante, quello cattolico, è padre Norbert Hofmann, segretario della Commissione per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, ha raccontare le sue impressioni. “Da parte nostra questo documento è stato accolto con grande calore, come un piccolo miracolo. Mai prima d’ora tre organizzazioni rabbiniche ortodosse avevano parlato in modo unitario e così positivo della promozione del Dialogo. Leggere parole come ‘stretti alleati, amici, fratelli’ è molto importante”. Durante l’incontro Bergoglio ha ricordato come il documento “ riconosce che ‘nonostante profonde differenze teologiche, Cattolici ed Ebrei condividono credenze comuni’ e ‘l’affermazione che le religioni devono utilizzare il comportamento morale e l’educazione religiosa – non la guerra, la coercizione o la pressione sociale – per esercitare la propria capacità di influenzare e di ispirare’. È tanto importante questo: possa l’Eterno benedire e illuminare la nostra collaborazione perché insieme possiamo accogliere e attuare sempre meglio”. E del contributo di Bergoglio nei rapporti con il mondo ebraico, parla invece rav Ratzon Arusi, presidente della Commissione del Rabbinato centrale d’Israele per i Rapporti religiosi, che ricorda le parole del pontefice sul moderno antisemitismo. “Bergoglio ha riconosciuto la nuova forma di antisemitismo, ovvero quella diretta ad attaccare e delegittimare Israele”, ha spiegato rav Arusi, rimarcando l’importanza di questo passaggio. “Il nostro impegno con la Chiesa deve poi fare i modo di mobilitare più persone possibili – aggiunge Arusi – affinché cessi questo odio costante verso l’altro, verso lo straniero”.

Daniel Reichel @dreichelmoked

(31 agosto 2017)

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“Le radici ebraiche del Cristianesimo”

“Le radici ebraiche del Cristianesimo”

Simposio internazionale organizzato da Liana Marabini a Roma

“Ogni cristiano deve avere un animo di ebreo se vuole vivere la propria fede e comprendere la Scrittura; gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori; il cristianesimo non è comprensibile se non viene letto nella storia dell’ebraismo”. 

Lo ha detto il cardinale Velasio De Paolis intervenendo giovedì 22 ottobre, a Roma, nel corso del Simposio internazionale sul tema “Le radici ebraiche del Cristianesimo”.

Organizzato dalla Liamar Edition, insieme al presidente emerito della Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede, al Simposio hanno partecipato in qualità di relatori il teologo Yuval Lapide,figlio del famoso Pinchas, storico e diplomatico israeliano. Gary Krupp, presidente della “Pave the Way Foundation” e Monsignor Bernard Ardura, O. Praem. Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche.

Nel suo intervento il cardinale De Paolis ha spiegato che  “dalla storia degli inizi appare più che evidente che il cristianesimo è fiorito dall’albero dell’ebraismo. I primi discepoli di Gesù Cristo erano semplicemente dei credenti ebrei, che, rimanendo tali, hanno visto in Gesù Cristo il compimento delle profezie e delle attese messianiche del popolo ebraico. Per il resto continuavano a sentirsi ebrei, legati alla legge mosaica e alla pratica del tempio”.

“I primi credenti – ha sottolineato il porporato – furono soprattutto ebrei e lo stile di vita dei primi cristiani non era visto in opposizione agli ebrei, tanto che forse presso le autorità imperiali i cristiani venivano identificati semplicemente con gli ebrei, sia pure con qualche caratteristica propria. Solo più tardi, – ha aggiunto – quando i pagani entrarono in massa e vennero a costituire la maggioranza nella nuova religione, si pose il problema della relazione tra ebraismo e cristianesimo”.

Dopo aver dimostrato come la continuità tra ebraismo e cristianesimo sia parte del mistero, De Paolis ha spiegato che “mentre il dialogo procede, la parte cattolica continua a comprendere sempre di più che, se non si interagisce con l’eredità ebraica della Chiesa, si indebolisce la fede e si scardina ciò che è essenziale per l’identità cristiana”.

A tal proposito ha scritto il cardinal Jean Marie Lustiger: “Diventando cristiano, non ho inteso cessare l’essere ebreo che ero allora. Non fuggivo da una condizione ebraica. L’ho ricevuta dai miei genitori e non la posso perdere. L’ho ricevuta da Dio, ed egli non me la farà perdere mai”. Il teologo Yuval Lapide, ha raccontato invece del libro “Tre Papi e gli ebrei” (1967) scritto da sua padre Pinchas, in cui si attesta che su 1.300.000 ebrei scampati alla Shoah, da 700.000 a 860.000 furono salvati ad opera della Chiesa Cattolica.

Gary Krupp, della Pave the Way Foundation ha riportato molte delle testimonianze di cristiani che hanno rischiato e perso la vita pur di salvare gli ebrei dall’Olocausto. E mons. Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, ha riportato in dettaglio le vicende di mons. Jules-Géraud Saliège e mons. Pierre-Marie Théas che nella Francia della Seconda Guerra mondiale salvarono centinaia di ebrei.

La serata si è conclusa con la proiezione del film di Liana Marabini “Shades of Truth” in cui si racconta di un giornalista ebreo che nutre molti pregiudizi nei confronti del Pontefice Pio XII, per poi scoprire che la sua famiglia fu salvata proprio da quel Papa.

(24 Ottobre 2015) © Innovative Media Inc.  

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Vignette e religione: sì o no?

Vignette e religione: sì o no?

Una riflessione su rispetto e libertà


di: Vittorio Robiati Bendaud


Una premessa: sin da ragazzo sono lettore di Tex e di Dylan Dog. Complimenti, dunque, a casa Bonelli, che ha tanti meriti nell’alfabetizzazione – e non solo – di questo Paese.
Il fatto: la concorrente Editoriale Cosmo di Reggio Emilia ha diffuso in edicola questo mese il fumetto Nosferatu, con avventure di umani e vampiri. Tra gli epocali fenomeni narrati ci sarebbe l’umano vampirizzato Yehoshua di Nazareth, alias Gesù, ivi inclusa la sua resurrezione, trionfo della sua leadership e di un certo vampirismo (cfr. p. 68 e segg).


Non credo che l’ebreo Yehoshua di Nazareth, esponente di correnti ebraiche molto vicine all’ebraismo farisaico e influenzato forse dal coevo essenismo, al pari del Gesù Cristo degli amici cristiani, necessiti di difensori d’ufficio. Tramite i suoi insegnamenti, si difende benissimo da solo.


Tuttavia credo che da difendere ci sia il ben ragionare. Cartesio riteneva che il buon senso fosse diviso equamente tra gli esseri umani. Lo storico Marco Cipolla ci ha meglio edotti, fortunatamente, sulle leggi fondamentali della stupidità umana.


Dopo Charlie Hebdo, la domanda è: “E se ci fosse stato, anziché Gesù – o Mosè – (entrambi ebrei, comunque), Maometto? Che cosa sarebbe successo?”.


So già che, anche con un innegabile fondo di verità, molti converrebbero nel sostenere che l’errore consiste nel denigrare le religioni, deriva erronea della libertà di espressione. Sono d’accordo.


Tuttavia, vi è un grave vulnus: questa riflessione, così assennata, si fa strada dopo la tragedia parigina, dopo il terrore. Ci si esprime, per così dire, a posteriori


Accade a posteriori, in primo luogo, perché per anni si sono denigrati cristianesimo ed ebraismo e i loro rappresentanti in varie forme (si pensi, non da ultimo, alla locandina irriverente di un concerto punk a Ferrara denigrante il locale arcivescovo, per non parlare delle vignette offensive che circolarono su Benedetto XVI), senza il turbamento indignato di nessuno. Dov’erano gli indignati? Nel caso, chi li ha presi sul serio? Per i più si trattò, conseguentemente, di satira legittima, talché le rampogne degli offesi furono considerate come iper-sensibilità o come intolleranza. 


Quella stessa buona e colta espressione della società “laica” che oggi chiede il rispetto per l’Islàm è rimasta indifferente all’analogo trattamento riservato a ebrei e cristiani, quando invece non divertita o addirittura complice soddisfatta. Parimenti molti “intellettuali” ebrei e cristiani – ahimè quasi tutti purtroppo delle aree progressiste e politicamente orientati a sinistra -, in relazione a questo tipo di “satira”, hanno spesso preferito lasciar correre, sentendosi “liberali” e “tolleranti” e dimostrando, purtroppo, troppo poco attaccamento alle rispettive Comunità di fede e ai loro simboli più cari. Chi di questi due diversi, ma parimenti inani, gruppi di intellettuali e politici, ha tuonato e prende, per esempio, sul serio le migliaia di vignette antisemite, realmente demonizzanti gli ebrei, che riempiono i giornali del mondo arabo islamico da decenni e che sono da tempo ormai diffuse anche in Europa? La domanda è dunque anzitutto questa: perché invalsi trattamenti diversi circa la comune percezione dell’esercizio del diritto di satira – o della sua censura – per cristiani e ebrei da una parte e musulmani dall’altra?


Rispetto ai fatti del terrore di matrice islamica – a Parigi e non solo – la riflessione sul diritto di satira è a posteriori anche da un secondo punto di vista, più insidioso e preoccupante.


Si può invitare con fermezza, senza ambiguità insidiose, al rispetto per le religioni, ponendo limiti alla libertà di espressione e di satira, solo dopo il terrore? Specifico meglio: si può fondare – o invocare – una morale pubblica e intersoggettiva “del rispetto” unicamente a fronte del terrore esperito? Dunque, in definitiva, solo in quanto reazione, subendo così ancora la paura? Per dirla fuori dai denti: non è profondamente insidioso ed errato fondare il rispetto sulla paura?

Questo assoggettamento – a posteriori – a un’etica giornalistica e satirica della cautela a fronte del terrore scatenatosi – o potenziale e latente -, oltreché risentire di una debolezza concettuale e morale intrinseca, significa ahimè darla parzialmente vinta ai terroristi che, proprio con il terrore, vogliono imporre il loro non-pensiero e il loro fanatismo e, sempre con il terrore religioso, fondare l’etica pubblica.

Chissà se quanti oggi invocano, giustamente, il rispetto delle religioni in relazione a certa satira hanno pensato anche a questo dettaglio etico e politico, tutt’altro che trascurabile?


Permangono altre domande, diverse ma convergenti. 

Possono le religioni, che giustamente invocano la necessità di una satira non offensiva (con l’interrogativo non banale per l’autorità civile laica, aperto a risposte multiple e tra loro forse inconciliabili, di come individuare il limite giuridico dell’eventuale offesa), evitare di banalizzare e presentare in maniera caricaturale o, peggio, demoniaca, l’altro da sé, credente in altre fedi oppure non-credente? Anche in questo è necessaria la reciprocità. L’ebraismo, oltreché in alcune concezioni teologiche e normative arretranti all’epoca talmudica (la dottrina del Noachismo), pur con opinioni diverse, già nei suoi Maestri medievali, aveva dato risposte significative e costruttive (in rapporto, in particolare, agli altri due monoteismi). Si pensi a Yehudah ha-Levì e a Maimonide e, successivamente, a rabbini insigni quali ‘Emdin, Rivkis, Hirsch, Sacks. Il cristianesimo cattolico ha risposto in maniera ufficiale e vincolante in vari passi celebri di Nostra Aetate, della Lumen Gentium e della Gaudium et Spes.


Può l’Islàm condannare le vignette antisemite che circolano sui giornali arabi e di altri Paesi islamici? Può l’Islàm evitare di ridurre gli ebrei a coloro che hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani a coloro le cui pratiche cultuali posseggono sapori idolatrici, apprezzandoli positivamente e evitandone caricature, siano esse teologiche, morali o politiche?


Può la cultura laica evitare di banalizzare le religioni, svilendole unicamente – o in prima istanza – a generatori di violenza, anche se esistono legami insidiosi tra religioni e violenza? Può la cultura laica evitare di offrire una errata visione caricaturale, pseudo-illuminista, delle religioni, tal ché esse costituiscano soltanto un coacervo di ignoranza, psicosi collettive, mortificazione della libertà individuale e dispotismo? 


Avrei, infine, delle domande da porre a coloro che fanno satira “senza freni” e a certi vignettisti, specie in relazione al loro senso di responsabilità sociale. Tuttavia, a fronte di morti così orrende, preferisco condividere il loro lutto. Anche perché vi è un discrimine netto e inviolabile tra il dominio della parola, anche se mal esercitata, e il dominio della violenza fisica, laddove chi compie certi atti è meno che animale. Per non offendere gli animali, si capisce. 
Per il momento, in relazione agli editori di Nosferatu, mi chiedo – ed è ovviamente solo una provocazione – a quando, dopo Gesù, Mosè e Maometto? Saranno mummie, zombie o licantropi?


Vittorio Robiati Bendaud
29/01/2015 Milano
Fonte: www.mosaico-cem.it




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L’ebraismo e l’umanità

L’ebraismo e l’umanità

Dall’ebraismo l’umanità ha ricevuto:

 Una verità così universale: Dio è uno.

Un pensiero così consolante: Egli è con noi nella miseria.

Una responsabilità così soverchiante: il suo Nome non sarà profanato.

Una mappa del tempo: dalla creazione alla redenzione.

Pietre miliari lungo la strada: il Settimo giorno.

Un’offerta: la contrizione del cuore.

Un’utopia: se tutti gli uomini fossero profeti.

L’intuizione: l’uomo vive per la sua fedeltà; la sua casa è nel tempo e la sua sostanza è negli atti.

Un modello così audace: siate santi.

Un comandamento così temerario: ama il prossimo tuo come te stesso.

Un fatto così sublime: il pathos umano e divino possono accordarsi.

E un dono così immeritato: la capacità di pentirsi. 

 A.J.Heshel: Dio alla ricerca dell’uomo”

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Jules Isaac – Gesù e Israele

Jules Isaac – Gesù e Israele

 Viene nuovamente presentato al lettore italiano uno dei grandi libri del XX secolo. Jules Isaac (Rennes 1877 – Aix-en-Provence 1963) iniziò a scriverlo nel 1943, quando la sua esistenza, ormai alle soglie della vecchiaia, era minacciata ed errante, sconvolta e perseguitata. Dopo quasi quarant’anni di insegnamento della Storia, nella Francia occupata dai Tedeschi egli dovette abbandonare tutto e fuggire. Vide i suoi numerosi libri, frutto di una vita intera dedicata agli studi, finire al macero.

Nascosto nella campagna francese con la moglie, la figlia, il genero e il figlio (che vennero scoperti e deportati nei campi di sterminio: solo il figlio farà ritorno) Isaac iniziò a chiedersi come fosse possibile nel cuore dell’Europa, nel cuore del Novecento una simile barbarie. Com’è stata possibile la Shoah nell’Europa da secoli cristiana?

Non vi è dubbio che l’antisemitismo nazista è altra cosa rispetto all’antiebraismo teologico, ma la sconvolgente scoperta di Isaac è che l’insegnamento del disprezzo, capillarmente diffuso per secoli, e che ha il suo culmine nel mito del popolo deicida, ha contribuito a preparare e rendere possibile la distruzione degli Ebrei d’Europa.

Terminato nel 1946 nella solitudine di un rifugio e pubblicato a Parigi nel 1948, Gesù e Israele non può essere considerato un’opera di scienza (come lo stesso Isaac riconosce). È invece “il grido di una coscienza indignata, di un cuore lacerato”.

Il libro si compone di ventun argomenti e di una conclusione pratica, che così riassumiamo:

1 – La religione cristiana è figlia della religione ebraica.
2 – Gesù è ebreo.
3 – Ebraica è la sua famiglia, ebrea è sua madre Maria (Miryam), ebraico è l’ambiente nel  quale vive.
4 – Gesù è circonciso.
5 – Il suo nome ebraico è Yeshua. Cristo è l’equivalente greco di Messia.
6 – Il Nuovo Testamento è scritto in greco, ma Gesù parlava aramaico.
7 – Nel I secolo in Israele la vita religiosa era profonda e intensa.
8 – L’insegnamento di Gesù si è svolto nel quadro tradizionale dell’ebraismo.
9 – Gesù ha osservato la Torah. Non ne ha proclamato l’abolizione.
10 – È un errore voler separare il Vangelo dall’ebraismo.
11 -La diaspora ebraica ha avuto inizio molti secoli prima della nascita di Gesù.
12 – Non si può affermare che il popolo ebraico nella sua totalità abbia rinnegato Gesù.
13 – Secondo i Vangeli, ovunque Gesù sia passato, salvo rare eccezioni, è stato accolto con entusiasmo.
14 – Non si può affermare che il popolo ebraico abbia respinto il Messia.
15 – Gesù non ha pronunciato una sentenza di condanna e di decadenza d’Israele.

Gli argomenti dal 16 al 20 sono dedicati al tema del popolo deicida: “In tutta la Cristianità, da diciotto secoli, si insegna correntemente che il popolo ebraico, pienamente responsabile della crocifissione, ha compiuto l’inesplicabile crimine del deicidio. Non vi è accusa più micidiale: effettivamente non vi è accusa che abbia fatto scorrere più sangue innocente”.

21 – Israele non ha respinto Gesù né lo ha crocifisso. Gesù non ha respinto Israele né lo ha maledetto.
22 – Conclusione pratica: necessità di una riforma (redressement) dell’insegnamento cristiano.

Nell’estate del 1947 si tenne a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di Paesi. Isaac aveva preparato uno schema in diciotto punti, che vennero discussi, e infine venne approvata una dichiarazione conosciuta come I dieci punti di Seelisberg. Viene riportata in appendice perché è interessante confrontare quei punti con gli argomenti di Gesù e Israele.

In quell’occasione venne anche fondato l’International Council of Christians and Jews. Aveva dunque inizio un’altra fase della vita di Isaac, il quale fu tra i promotori dell’Amitié Judéo-Chrétienne de France (fondata nel 1948) e si adoperò per la costituzione della prima Amicizia ebraico-cristiana italiana (che venne fondata a Firenze nel 1950). Altri due libri vennero a completare il lavoro iniziato con Gesù e Israele : Genèse de l’antisémitisme (Paris 1956) e L’enseignement du mépris (Paris 1965).

Incontrò due Papi: nel 1949 venne ricevuto da Pio XII e nel 1960 da Giovanni XXIII. Nel corso di questo secondo incontro consegnò un Dossier che il Papa affidò al cardinale Bea: sarebbe stato all’origine della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II.

Da allora, si è aperta una nuova era nelle relazioni ebraico-cristiane, anche se il lavoro è enorme e le difficoltà ancora numerose. A cinquant’anni di distanza, molte cose sono cambiate, e molti degli argomenti di Isaac vengono comunemente accettati.

Ci si può chiedere però quale sia il senso di questo avvicinamento tra ebrei e cristiani. Non è in fin dei conti rischioso sia per gli uni che per gli altri? Non c’è il rischio di annullare le differenze in un confuso sincretismo?

Queste preoccupazioni sono bene espresse da uno dei grandi maestri dell’ebraismo novecentesco, R. Joseph B. Soloveitchik: “Il dialogo non deve toccare argomenti di ordine teologico, ma solo questioni laiche, di interesse comune” e più avanti: “Collaboriamo con persone appartenenti ad altre fedi in tutti i campi dello sforzo umano, ma nello stesso tempo cerchiamo di preservare la nostra distinta identità, che inevitabilmente comprende aspetti di separazione”.

Da parte cristiana questa posizione viene così presentata dal pastore Matin Cunz (che la pensa diversamente ed è uno dei protagonisti del dialogo ebraico-cristiano): “Abbiamo una grandissima colpa riguardo agli ebrei. Abbiamo frainteso il Vangelo, abbiamo tradito i precetti del Cristo, il figlio del popolo ebraico. Ma tutti questi fatti tristi e vergognosi non devono e non possono cambiare le fondamenta della teologia cristiana. Le verità rimangono le stesse, il comportamento deve cambiare”.

Isaac, da parte sua, licenziava il suo volume con queste sorprendenti parole:”Forse qualcuno si domanderà a quale confessione appartenga l’autore. La risposta è facile: non appartiene a nessuna confessione. Ma tutto il libro attesta il fervore che lo ispira e lo guida”. Accusato di ambiguità, egli preciserà: “Fervore rispetto a Israele, fervore rispetto a Gesù, figlio d’Israele”.

Se l’Alleanza con Israele non è mai stata revocata, se rav Yeshua ben Yosef non ha abolito la Torah, se la Cristianità non si è sostituita a un Israele maledetto o comunque decaduto siamo di fronte alla necessità di ridefinire la relazione tra Israele e le Chiese.

La purificazione dell’insegnamento del disprezzo e l’abbandono della teologia della sostituzione rendono possibile un riconoscimento: l’Alleanza è stata estesa alle nazioni. Il che non priva i cristiani di essere testimoni della loro fede di fronte a Israele, anzi, per la prima volta, rende la loro testimonianza credibile. Il grosso problema è sapere in che cosa propriamente tale testimonianza consista.

Per quanto possa sembrare paradossale, la testimonianza messianica delle nazioni comporta in primo luogo la consapevolezza che non è la kefirah (apostasia) d’Israele a poter essere un segno della Redenzione. Se Israele è la radice santa, ha senso sperare nella sua conversione in ramo?

Questa nuova consapevolezza rappresenterebbe una vera teshuvah, che permetterebbe di partecipare al banchetto preparato dal Signore per tutti i popoli, quando verranno distrutti il velo e la coltre posti sui loro volti (Is 25, 6-8).

Marco Morselli

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