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“Profezia di San Malachia sui Papi”

“Profezia di San Malachia sui Papi”

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ORA BERGOGLIO CANCELLA RATZINGER (dopo aver abbattuto i pilastri del Pontificato di Giovanni Paolo II)

ORA BERGOGLIO CANCELLA RATZINGER (dopo aver abbattuto i pilastri del Pontificato di Giovanni Paolo II)

Con il Motu proprio “Traditionis custodes”, papa Bergoglio ha spazzato via la liberalizzazione della messa in rito antico di Benedetto XVI che, nel 2007, aveva voluto rispondere alla richiesta di tanti, anche giovani, attirati dall’antica liturgia la quale era stata proibita dopo il Concilio.

Joseph Ratzinger, che pure era un uomo del Concilio Vaticano II, aveva raccontato: “rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l’impressione che questo fosse del tutto normale”.

Ratzinger sottolineò che “Pio V (dopo il Concilio di Trento) si era limitato a far rielaborare il messale romano allora in uso, come nel corso vivo della storia era sempre avvenuto lungo tutti i secoli… senza mai contrapporre un messale a un altro. Si è sempre trattato di un processo continuativo di crescita e di purificazione, in cui però la continuità non veniva mai distrutta… Ora invece” spiegava Ratzinger “la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell’antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche… si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro”.

Ratzinger sottolineava che ora “per la vita della Chiesa è drammaticamente urgente un rinnovamento della coscienza liturgica, una riconciliazione liturgica, che torni a riconoscere l’unità della storia della liturgia e comprenda il Vaticano II non come rottura, ma come momento evolutivo. Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita ‘etsi Deus non daretur’: come se in essa non importasse più se Dio c’è e se ci parla e ci ascolta”.

Quindi Benedetto XVI, con il “Summorum pontificum” del 2007, riparò un errore che non era affatto dovuto al Concilio Vaticano II, infatti la proibizione della liturgia latina contraddiceva la stessa Costituzione conciliare sulla liturgia e anche la Lettera Apostolica “Sacrificium laudis” di Paolo VI come pure la “Veterum sapientia” di Giovanni XXIII.

La cancellazione dell’antico rito era andato di pari passo con la scristianizzazione galoppante del ‘68 e con un drammatico crollo di civiltà.

Nel 2005, alla vigilia dell’elezione al pontificato di Benedetto, lo scrittore Guido Ceronetti, in una lettera aperta al nuovo papa su “Repubblica”, chiede: “che sia tolto il sinistro bavaglio soffocatore della voce latina della messa” e sia possibile celebrarla come quella in volgare “imposta da una riforma liturgica distruttiva”.
Lo scrittore aggiungeva: “Certamente non ignorerete quanto piacque alle autorità comuniste quella riforma conciliare dei riti occidentali; non erano degli stupidi, avevano nella loro bestiale ignoranza del sacro, percepito che si era aperta una falla”.
In effetti il rito latino era il concreto legame universale che univa i cattolici di tutto il pianeta in un’unica Chiesa guidata da Pietro e in un’unica fede.

D’altra parte, già negli anni Sessanta, in difesa dell’antica liturgia attaccata dai cattoprogressisti, si era pronunciata la migliore cultura laica e cattolica, che metteva in guardia dalla grave perdita di bellezza, di cultura e sacralità.

Nel 1966 e nel 1971 uscirono due appelli pubblici in difesa della Messa tradizionale di s. Pio V firmati da personalità come Jorge Luis Borges, Giorgio De Chirico, Elena Croce, W. H. Auden, i registi Bresson e Dreyer, Augusto Del Noce, Julien Green, Jacques Maritain (il filosofo vicino a Paolo VI a cui il Papa consegnò, alla fine del Concilio, il documento agli intellettuali), Eugenio Montale, Cristina Campo, Francois Mauriac, Salvatore Quasimodo, Evelyn Waugh, Maria Zambrano, Elémire Zolla, Gabriel Marcel, Salvador De Madariaga, Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Giovanni Macchia, Massimo Pallottino, Ettore Paratore, Giorgio Bassani, Mario Luzi, Guido Piovene, Andrés Segovia, Harold Acton, Agatha Christie, Graham Greene e tanti altri come il famoso direttore del “Times”, William Rees-Mogg.

La decisione di Benedetto XVI, nel 2007, di recuperare la tradizione ebbe anche il sostegno di altre personalità come René Girard, Vittorio Strada, Franco Zeffirelli e il citato Guido Ceronetti.

Papa Bergoglio ora sostiene di aver azzerato la libertà di rito introdotta da Benedetto XVI perché essa, invece di creare unità del corpo ecclesiale (come volevano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI), ha prodotto divisione e “un rifiuto crescente non solo della riforma liturgica, ma del Concilio Vaticano II, con l’affermazione infondata e insostenibile che abbia tradito la Tradizione e la ‘vera Chiesa’”.

Qui c’è anche del vero. In effetti c’è chi ha vissuto “la messa in latino” in modo un po’ settario, sentendosi “la vera Chiesa”. Ma papa Bergoglio confonde l’effetto con la causa.

A provocare il rifiuto (sbagliato) del Concilio in realtà non è il rito antico, ma casomai certe innovazioni “rivoluzionarie” del suo pontificato (che non c’entrano nulla col Concilio) o certi abusi nella liturgia in volgare che papa Bergoglio riconosce, ma su cui non interviene con proibizioni.

La decisione di Francesco, che azzera un pilastro del pontificato di Benedetto XVI, è un doloroso errore che toglie libertà e provocherà nuove divisioni. Il papa fa il grosso regalo ai lefebvriani dell’esclusività del rito antico e di alcuni fedeli. E la Chiesa è sempre più smarrita e confusa in questo tramonto di pontificato.

 

Antonio Socci

 

Da “Libero”, 17 luglio 2021

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La sinistra che fa la guerra alla lingua e quella che vuole proibire ai maschi di urinare in piedi (era meglio il compagno Engels)

La sinistra che fa la guerra alla lingua e quella che vuole proibire ai maschi di urinare in piedi (era meglio il compagno Engels)

Il caso che ha suscitato più ironie, nella rivoluzione del politicamente corretto, è quello del parlamentare Usa Emanuel Cleaver, del partito Democratico, che, recitando la preghiera di inizio dei lavori del Congresso, ha concluso con “Amen and Awomen” (in realtà “amen” non è maschilista: è un’antica parola ebraica-aramaica che non c’entra nulla con l’inglese “men”).
Ormai la rivoluzione “politically correct” galoppa dappertutto, anche in Emilia dove un tempo sognavano altre rivoluzioni: il comune di Castelfranco Emilia ha deciso di usare sui propri canali social lo “schwa”(una “e” rovesciata) per promuovere un linguaggio inclusivo e non discriminatorio (così dicono) verso le donne o verso chi non si riconosce nel cosiddetto “binarismo di genere”.
Dunque scrivono: “A partire da mercoledì 7 aprile moltǝ nostrǝ bambinǝ e ragazzǝ potranno tornare in classe!”, anziché “molti nostri bambini e ragazzi” (maschile che, nell’italiano corrente, include tutti).
Lo schwa è un segno grafico difficile da pronunciare. I napoletani, nel loro dialetto, usano un suono simile, per esempio nell’espressione mamm’t, ma non c’entra nulla con il “politicamente corretto”.
Se però si contesta l’uso del maschile universale, si dovrebbe cominciare a correggere anche quelle parole che finiscono in “a”, ma includono maschi e femmine. Sarebbe da ridere.
Si dovrebbe chiamare “dentisto” chi finora era “dentista”, ma è di sesso maschile. Così pure l’elettricista (che diventa elettricisto) o il pianista maschio (che diventa pianisto), il violinista maschio (violinisto) o il tassista (che diventa tassisto) o il barista, lo stilista e il marmista. Ma anche “socialista, comunista ed ecologista” – per i maschi – diventerebbero socialisto, comunisto ed ecologisto.
A Castelfranco però vanno oltre e, contro il “binarismo” maschio/femmina, aboliscono il genere stesso delle parole. È una conquista di uguaglianza? O è un altro traguardo grottesco del “politically correct”? Siamo sicuri che sia proprio ciò di cui oggi si sente il bisogno?
L’insospettabile Friedrich Engels, braccio destro di Marx, nell’“Anti-Dühring” osserva che “ogni rivendicazione di uguaglianza che va oltre finisce necessariamente nell’assurdo”.
Quello emiliano sembra proprio un egualitarismo che “va oltre”. Rientra nella moda ideologica che è stata definita ironicamente “pertuttismo”. Ma è soprattutto ciò che è maschile a essere preso di mira, condannato come retaggio della “società patriarcale”.
Il filosofo francese Jean-Claude Michéa, nel suo libro “I misteri della sinistra: dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto”, indicava un caso emblematico di questa crociata ideologica contro il maschile, nell’iniziativa del partito di sinistra svedese (che aveva 22 parlamentari): “il 12 giugno 2012, quel partito ha depositato presso il consiglio regionale della contea di Sörmland un progetto di legge che punta a vietare a tutti gli ‘individui di sesso maschile’ di urinare in piedi. Il fatto – del tutto incomprensibile nel XXI secolo – che ancora non esista in Svezia una legge che stabilisca un modo di urinare che possa finalmente essere lo stesso per tutti costituisce infatti – agli occhi dei militanti di quel partito di estrema sinistra – una discriminazione vergognosa e ideologicamente inaccettabile (del resto, l’unica maniera democratica di urinare non poteva evidentemente essere quella imposta dalla norma maschile)”.
L’uguaglianza politicamente corretta nella minzione è garantita solo dal democratico catetere. Di questo passo lo imporranno a tutti?

Antonio Socci

Da “Libero”, 15 aprile 2021

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Invece dei dittatori censurano Trump. L’intolleranza che stritola la democrazia. Le “Ombre” e il singolare “Anticristo” di Joseph Roth.

Invece dei dittatori censurano Trump. L’intolleranza che stritola la democrazia. Le “Ombre” e il singolare “Anticristo” di Joseph Roth.

La Guida Suprema dell’Iran, Alì Khamenei, su twitter, tuona tranquillamente: “Israele è un cancro maligno che deve essere rimosso e debellato: è possibile e accadrà”.

E’ un tweet che sta lì da tempo, nessuno ritiene di cancellarlo, tanto meno viene cancellata da Twitter la Guida Suprema che pure in questi mesi ha tuonato contro gli stati musulmani che “scendono a compromessi con il regime sionista usurpatore” (si riferisce agli “Accordi di Abramo” stipulati grazie a Trump fra Israele e alcuni stati arabi).

In compenso Twitter ha “imbavagliato” Trump che continua a ripetere che ci sono state enormi irregolarità nel voto del 3 novembre.

Su Twitter cinguettano tutti, solo Trump è stato cancellato. C’è per esempio Maduro, che domina in Venezuela e può twittare esaltando il suo regime e attaccando gli oppositori.

“Mentre Twitter bannava il presidente degli Stati Uniti”, ha scritto Giulio Meotti, l’ambasciata cinese negli Stati Uniti presentava la tragedia demografica degli Uiguri “come una loro ‘scelta riproduttiva’. Il fantastico mondo della libertà digitale”.

Si assiste a un fenomeno incredibile di doppiopesismo: si censurano le idee non gradite di un leader democratico e si lasciano fare proclami di Capi illiberali come quelli che abbiamo letto.

Ma c’è di più: c’è la pretesa di farlo in nome del Bene. Così – osserva ancora Meotti – hanno creato un meccanismo geniale e infernale: censura in nome della libertà, esclusione in nome dell’inclusione, discriminazione in nome della lotta alla discriminazione, odio in nome della lotta all’odio, intolleranza in nome della tolleranza”.

E’ un fenomeno che, pure in Italia, si era già osservato nella politica e nel dibattito sui media. L’Impero del Bene – come io stesso avevo scritto in un mio libro (se posso citarmi) – è un mondo alla rovescia dove le parole hanno divorziato dalle cose:

“si ‘censura’ in nome della Tolleranza, si odia in nome dell’Amore Universale, si demonizza in nome della Filantropia, si mette al rogo (mediatico) in nome della Fraternità, si diffondono balle mentre si lotta contro le fake news, si imbavaglia in nome della Libertà, si discrimina in nome dell’Uguaglianza, si scomunica in nome dell’Apertura mentale, si mette all’Indice in nome del Dialogo”

C’è un romanzo distopico di Joseph Roth che indica proprio in questo cortocircuito del linguaggio il regno dell’Anticristo (metafora della menzogna universale): “Non riconosciamo più, oramai da molto tempo, l’essenza e l’aspetto delle cose che ci accadono” scrive Roth. E prosegue:

“Similmente a coloro che sono fisicamente ciechi abbiamo soltanto nomi per tutte le cose di questo mondo, che più non vediamo: nomi! […] Il cieco non distingue le une dalle altre. Noi, i ciechi, non le distinguiamo. Alle cose autentiche diamo nomi falsi. […] Poiché siamo divenuti ciechi, utilizziamo erroneamente nomi e denominazioni. Chiamiamo grande il piccolo, il piccolo grande; il nero bianco e il bianco nero; l’ombra luce e la luce ombra. […] Nomi e denominazioni perdono dunque contenuto e significato. È peggio che al tempo della costruzione della torre di Babele. […] Oggi tutti parlano la stessa, falsa lingua, e tutte le cose hanno le stesse ma false denominazioni”.

Roth è famoso per “La cripta dei cappuccini”“Giobbe” e “La leggenda del santo bevitore”. Nato nel 1894 nell’impero austroungarico – nella cui cultura si riconosceva – è morto a Parigi nel 1939 dove era andato per sfuggire alle persecuzioni naziste essendo d’origine ebraica.

Scrisse “L’Anticristo” nel 1934, tuttavia questo romanzo distopico non coglie solo la menzogna dei totalitarismi di quegli anni, ma pure quella possibile nel mondo libero. E’ un singolare affresco visionario.  Il finale sorprende.

Il protagonista, che “lotta contro l’Anticristo”, riceve la visita di un frate che viene da Roma e lavora presso il Papa: “Una volta” gli racconta “vidi al posto del Santo Padre, sulla sedia di Pietro, un altro… Proprio un altro!”.

Allora il protagonista interroga il frate sul Papa e l’Anticristo e il religioso riprende a raccontare: “un giorno vidi che il Santo Padre si era addormentato, solo per poche ore. Ma in quel tempo però un altro si mise sul suo trono sublime. E proprio in quelle ore vennero i delegati di alcuni Paesi pagani”.

Il frate racconta l’arrivo del delegato dell’Urss, poi di quello della Germania e i loro erano progetti di violenza e di dominio per i quali chiedevano l’appoggio della Chiesa.

Poi venne la terza delegazione: “Noi veniamo da Hollywood, alcuni lo pronunciano ‘furore dell’inferno’, Hölle-Wut, ma Tu, Santo Padre, non crederci! Noi non vogliamo più conquistare il mondo, infatti l’abbiamo già conquistato. Noi siamo il Paese delle ombre”.

L’allusione è al cinema e ai media in generale. Questo delegato e i suoi “si impegnano a diffondere l’ombra del Redentore su tutti gli schermi del mondo. A regola d’arte truccheremo i Tuoi veri cardinali e i Tuoi veri sacerdoti, affinché essi diventino delle vere ombre”. In questo modo “diffonderemo la vera fede in tutto il mondo, rappresentata da vere ombre. Perché il mondo di oggi consiste di vere ombre”. Così “il Santo Padre annuì. E stipulò un concordato” con loro.

Non svelerò il finale davvero sorprendente. Ma c’è in esso il presentimento che tutti possiamo essere false immagini nel menzognero regno “delle ombre”. E che tutti finiamo a recitare una parte nel teatro dell’Anticristo, anche chi gli si oppone. Roth lascia così aperta la drammatica domanda: come sottrarsi alla menzogna universale?

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 11 gennaio 2021

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Covid. Il governo ha perso mesi preziosi e l’Italia oggi è una nave senza timoniere. A sorpresa lo dicono…

Covid. Il governo ha perso mesi preziosi e l’Italia oggi è una nave senza timoniere. A sorpresa lo dicono…

“State attenti: la nave ormai è in mano al cuoco di bordo, e le parole che trasmette il megafono del comandante non riguardano più la rotta, ma quel che si mangerà domani.

Søren Kierkegaard, nel libro “Stadi sul cammino della vita”, illustra bene la condizione umana nella modernità in cui è censurata la domanda sul “dove andiamo”. Ma questa memorabile pagina oggi torna utilissima per descrivere la situazione politica italiana nella seconda ondata del Covid 19.

Sembra infatti che – nelle liti fra i partiti di governo e il premier o nello scontro fra regioni e governo – a Palazzo Chigi abbiano perso il controllo della nave la quale sta andando verso una cascata dove si sommano l’emergenza sanitaria e quella economica.

La prospettiva del Paese è molto cupa, ma chi parla “al megafono del comandante” non tiene il timone per portare la barca in salvo: riesce solo a balbettare cosa c’è oggi sul menù di bordo, ovvero parla di questioni (in fondo) secondarie (tipo: quanti ospiti voi potete invitare a cena, o la distinzione fra correre in un parco e camminare) e non sa affrontare di petto la situazione.

In effetti sembra che il problema oggi sia rappresentato proprio dalla mancanza di un (vero) timoniere, cioè di un inquilino di Palazzo Chigi che sappia dove andare e sappia guidare la nave. Il “rinvio” è la cifra politica e stilistica di Giuseppe Conte (vengono perennemente rimandati tutti i dossier più scottanti) e oggi non è più tempo di rinvii.

A imputargli questa inadeguatezza, in queste ore, con la seconda ondata del Covid, sono (esplicitamente) i giornali che – all’esordio dell’esecutivo – erano filo governativi e (sommessamente, nei corridoi) i partiti di governo (soprattutto Pd e Iv, perché il M5S sembra impegnato nella lotta interna di tutti contro tutti).

Il ritornello che ieri si leggeva su quei giornali (non di opposizione) era questo: a febbraio tutti siamo stati colti di sorpresa, ma la seconda ondata era preannunciata da mesi e non è stato preparato nulla, sono stati sprecati mesi preziosi inutilmente, perciò oggi siamo nei guai.

Così Walter Veltroni (sic!) sul Corriere della sera: “non siamo più nella condizione di legittima sorpresa che ci ha colpito all’emersione di questa orrenda bestia. Sono passati mesi, bisognava essere pronti”.

Così, su RepubblicaStefano Folli: “Tutto sembra piuttosto casuale, avviene al di fuori di una strategia, di un piano coerente. E c’è una divergenza sostanziale rispetto alla primavera. Allora i cittadini si aggrapparono in massa alla figura del presidente del consiglio (…). Ora invece un segmento crescente di opinione pubblica è impaurita, sì, ma anche sconcertata. La magia sembra svanita e nell’aria aleggia il rimprovero: perché questi mesi in cui il virus aveva concesso una tregua sono stati sprecati? Perché in sostanza la seconda ondata ha preso alla sprovvista il governo?”.

Stefano Feltri su Domani (il quotidiano di Carlo De Benedetti) titolava il suo editoriale: “Ogni contagio è un voto di sfiducia verso il governo”.

Ecco le sue parole: “I dati sui contagi sono un quotidiano voto di sfiducia della realtà nei confronti di questo governo. Oltre 10.000 nuovi positivi in un giorno certificano che i mesi di tregua concessi dalla disciplina degli italiani durante il lockdown e dal caldo estivo sono stati sprecati in un’orgia irresponsabile di autocompiacimento. Ricordate la passerella degli stati generali a Villa Pamphili, a Roma?”.

Certo, c’è ancora qualcuno che cerca di incolpare gli italiani accusandoli di aver passato “un’estate rock temerariamente sbarazzina” (La Stampa), ma è un’accusa assurda, ingiusta e improponibile.

Primo: perché la seconda ondata è arrivata ad autunno inoltrato e non a ferragosto. Secondo: perché sapevamo che sono le condizioni climatiche a portare la seconda ondata e infatti era stata perfettamente prevista in primavera, tanto è vero che la stanno subendo tutti i paesi, sbarazzini o no, ed è storicamente accertato che le epidemie hanno questo andamento: anche la spagnola tornò in autunno e cento anni fa, dopo la Grande guerra, nessuno aveva fatto estati sbarazzine.

Del resto sono gli stessi partiti di governo – a cominciare da Pd e Iv – a fremere, brontolare e chiedere chiarimenti e riunioni del consiglio dei ministri con nuove misure. Ma ormai il loro stesso giudizio sul governo è di inadeguatezza.

Peraltro ieri anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi è tornato a bombardare l’esecutivo: “Il Covid è stato qualcosa su cui nessuno era preparato” a marzo, “ma dall’emergenza bisognava pensare al futuro. Cosa è stato fatto nel frattempo?… Siamo ancora fermi; il modello Veneto ha funzionato: perché non lo abbiamo adottato? Ora ci troviamo qua a dire: la curva è ripartita e non siamo in grado di monitorarla”.

In conclusione, questo esecutivo e questo presidente del consiglio sembrano e sono al capolinea, ma potrebbero continuare ancora per mesi a stare al loro posto – nonostante la gravità della situazione del Paese – perché i partiti di governo temono di destabilizzare i loro equilibri di potere. A pagare il prezzo (salato) di questa politica sono gli italiani.

Così viene in mente la micidiale immagine usata ieri da Walter Veltroni all’inizio del suo editoriale sul Corriere.

Ha ricordato una sequenza di “Todo modo”, il film di Elio Petri ispirato al romanzo di Leonardo Sciascia: “Un’ambulanza gira per la periferia di una città con degli altoparlanti montati: ‘Attenzione attenzione. A tutti i cittadini… l’epidemia sta continuando a mietere vittime tra la popolazione…’. Poco lontano, nell’albergo Zafer… il potere del tempo mette in mostra il suo lato malato tra intrighi, lotte di potere, separazione dal reale. Fuori c’è l’epidemia, dentro la malattia… Esiste questo rischio oggi?”.

La risposta di Veltroni è “finora non è stato così”, ma ne è convinto? O risponde così per carità di patria (anzi di partito)? In ogni caso se ha esordito con quella citazione il motivo è molto chiaro e drammatico, per chi lo vuol capire.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 18 ottobre 2020

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Riccardo Cascioli:” ‘Fratelli tutti’, visione opposta a Giovanni Paolo II”

Riccardo Cascioli:” ‘Fratelli tutti’, visione opposta a Giovanni Paolo II”

Mettiamo a confronto la visione di “Fratelli tutti” con l’omelia di inizio pontificato di san Giovanni Paolo II, quella del grido “Aprite le porte a Cristo”. Si tratta di due visioni completamente diverse, l’enciclica di papa Francesco è in chiara discontinuità con le encicliche sociali che l’hanno preceduta. Cosa deve pensare e fare un semplice fedele?

Detta in estrema sintesi: la nostra stessa natura ci indica che siamo tutti fratelli e che siamo chiamati a costruire la fraternità universale; per questo dobbiamo superare i nostri egoismi individuali, le nostre chiusure, per poter creare una società aperta basata sull’inclusione, l’amore per ogni uomo, la valorizzazione dei poveri e degli ultimi; per aiutare tutte le nazioni a questo scopo è necessaria in diversi campi una “global governance”, una autorità internazionale capace di indirizzare i singoli stati e sanzionarli quando si chiudono; anche le religioni, che tutte hanno una vocazione alla fraternità universale, devono aiutare a questo scopo, e un esempio è il documento sulla fratellanza umana firmato nel febbraio 2019 da papa Francesco e il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb (la dichiarazione di Abu Dhabi) che è l’ispirazione principale di questa enciclica.

Questo per sommi capi il pensiero portante di Fratelli tutti, l’enciclica di papa Francesco pubblicata domenica 4 ottobre.

Per una curiosa coincidenza il giorno prima, alla Giornata della Bussola, abbiamo riascoltato il famoso passaggio dell’omelia di inizio pontificato di san Giovanni Paolo II (22 ottobre 1978), che è stato anche il programma e la sintesi del suo pontificato: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!».

Una breve omelia, in cui si annunciava con certezza la potestà di Cristo sul mondo e la missione evangelizzatrice della Chiesa, come peraltro definita dal Concilio Vaticano II. L’incertezza, la disperazione dei singoli uomini così come dei popoli, ha una sola risposta, diceva Giovanni Paolo II: Gesù Cristo. «Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna».

L’impostazione dell’enciclica “Fratelli tutti” non poteva dunque non riportare alla mente quelle parole di Giovanni Paolo II, appena riascoltate. Perché esprimono due visioni radicalmente diverse, direi opposte. E questo non può non suscitare alcune domande.

Per papa Francesco scopo ultimo di ogni uomo, cristiani in testa, è costruire la fraternità universale: basta la sola ragione umana per concepirla e riconoscere gli strumenti necessari a realizzarla. E le religioni, tutte indistintamente, devono essere un aiuto a questo perché a a questo scopo, tutte indistintamente, sono chiamate.

Per san Giovanni Paolo II, invece, solo Cristo è risposta esauriente alle domande dell’uomo come dei popoli, tutto il mondo è sotto la Sua potestà, solo Lui ha «parole di vita eterna».

La visione che papa Francesco esprime nella “Fratelli tutti” non è una declinazione di quella certezza espressa da san Giovanni Paolo II, è chiaramente un’altra cosa. Essa è piuttosto in sintonia con il pensiero che ispira “Our Global Neighborood” (Il nostro vicinato globale), il Rapporto della Commissione Onu sulla Global Governance, pubblicato nel 1995, che disegna un’etica globale per un mondo pacificato e fraterno. L’ispirazione e i valori fondanti di questa etica globale sono chiaramente assimilabili a quelli espressi nella “Fratelli tutti”. Si tratta di un manifesto socialisteggiante e utopistico che pretende di comprendere ogni «paese, razza, religione, cultura, lingua, stile di vita». Le religioni, che possono ritrovarsi su questi valori comuni, sono ovviamente necessarie in questo disegno, perché hanno la capacità di controllare una percentuale altissima della popolazione.

La prima domanda sorge dunque naturale: è questa prospettiva compatibile con la visione cattolica? Se stiamo a Giovanni Paolo II, che richiama il Concilio Vaticano II, decisamente no. La pace, la fraternità è possibile – dice san Giovanni Paolo II – se i confini degli Stati si aprono alla potestà di Cristo, non agli immigrati; se alla potestà di Cristo si aprono i sistemi economici, politici, la cultura, ogni aspetto della società. La Chiesa esiste solo per vivere e annunciare questo.

Non c’è bisogno di molti ragionamenti per rendersi conto che la “Fratelli tutti” è un rovesciamento di questa visione. Chiaramente non si tratta di due sensibilità diverse, o di sottolineature di aspetti diversi di una stessa visione dati dal vivere due momenti diversi della storia. Nel leggere la Rerum Novarum di Leone XIII e la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II si percepiscono i cento anni che separano le due encicliche, ma è altrettanto chiara la continuità che esiste nella visione dei due pontefici.
Qua ci troviamo di fronte a qualcosa che invece rompe questa continuità e non può essere un caso che circa due terzi dei richiami di questa enciclica siano citazioni di precedenti discorsi, messaggi ed encicliche dello stesso papa Francesco.

E qui un’altra domanda diventa inevitabile: cosa deve pensare e fare un semplice fedele che non vuole chiudere gli occhi davanti a questa evidente discontinuità?

Fonte: La Nuova Bussola Quotidiana di Antonio Socci .Editoriale  del 06.10.2020

lanuovabq.it

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Il “Caso Becciu” e Papa Bergoglio nel declino di un Pontificato. Con qualche sorprendente segnale di ortodossia Cattolica.

Il “Caso Becciu” e Papa Bergoglio nel declino di un Pontificato. Con qualche sorprendente segnale di ortodossia Cattolica.

Già Benedetto XVI cercò di fare pulizia nelle intricate e oscure questioni finanziarie del Vaticano e si ebbe la sensazione di un’impresa durissima ai limiti dell’impossibile, addirittura fino a suscitare in alcuni il dubbio che essa abbia influito nella “rinuncia” al pontificato.

Jorge Mario Bergoglio, nel 2013, fu eletto anche “per far pulizia nelle finanze del Vaticano”, come ha ricordato il cardinale George Pell. In effetti ci ha provato fin dall’inizio, ma questi sette anni sono stati un susseguirsi di tentativi e fallimenti. Anche qui con una serie di nomine, siluramenti, contraddizioni, errori e casi mai ben chiariti, fino a precipitare nel dramma di queste ore che ha investito uno dei principali collaboratori di papa Francesco: il cardinale Angelo Becciu, “licenziato” su due piedi dal pontefice per la gestione dei fondi del Vaticano. Lui che era – come scrive Matteo Matzuzzi – “il potentissimo cardinale, considerato più vicino e in confidenza con il Papa”.

E’ un caso tanto clamoroso – anche per i suoi possibili sviluppi – che ieri un giornale titolava: “La Chiesa è nel caos. Siamo al tutti contro tutti”.

C’è chi si rallegra, come il card. Pell, perché pensa che stavolta sia stata presa la strada giusta (peraltro Pell è ritenuto un conservatore) e chi ritiene di assistere a un incomprensibile sfacelo. Infatti i media che hanno sempre supportato papa Bergoglio non sanno più che spartito suonare, perché quella che viene chiamata “guerra per bande”, esplosa con il “caso Becciu”, è tutta interna all’establishment bergogliano. Ed è un significativo paradosso che tale guerra scoppi oltretevere proprio mentre il papa sta per firmare la sua nuova enciclica che si intitola “Fratelli tutti”. Guardando alla sua Curia verrebbe da commentare: fratelli coltelli.

Quello che sconcerta nella vicenda di queste ore è – in primo luogo – la gravità delle accuse stavolta abbattutesi su uno dei più stretti collaboratori del papa, da lui sempre sostenuto e promosso cardinale; in secondo luogo la modalità del “siluramento” senza spiegazioni e senza condanne, che ha fatto firmare a Luis Badilla, direttore del sito ultrabergogliano “Il Sismografo”, molto ben introdotto in Vaticano, un editoriale di fuoco intitolato: “Vicenda Becciu: un tipico caso di cannibalismo mediatico animato dall’interno delle mura vaticane”.

Dopo aver ricordato che Becciu “non è sotto processo e non è indagato”, Badilla scrive: “Il gesto di ieri del Papa assomiglia ad una ‘esecuzione’: sei accusato di … ma non puoi difenderti (tranne che tramite la stampa)”.

Secondo Badilla, “Becciu va processato come Pell e tutti devono attendere la sentenza finale definitiva. Il Papa, nonostante i suoi poteri, non è un giudice né un tribunale. Nonostante tutto, i diritti dell’accusato esistono e le garanzie anche così come la presunzione d’innocenza tanta cara a Francesco… Occorre ricordare” ha aggiunto Badilla “che sono decine le persone, alcune collaboratori vicini a Papa Francesco, che hanno finito di colpo le loro mansioni, senza ricevere spiegazioni, prove o ringraziamenti… Non si può andare avanti così anche perché causa un danno gigantesco nel cuore dei cristiani semplici, umili e fedeli”.

Il giudizio del bergogliano Badilla è simile a quello di Riccardo Cascioli, direttore del sito cattolico “La nuova Bussola quotidiana”: “Quella del cardinale Becciu è l’ennesima epurazione ai vertici della Santa Sede che accade in questo pontificato. Epurazioni degne di giunte militari sudamericane, che evitano di appurare la verità”.

Eppure stavolta, al di là della durezza del potere e delle formalità controverse, sembra di cogliere in papa Bergoglio una sorta di sbigottimento, di smarrimento e delusione, come di chi si trova di fronte a una mole di problemi imprevisti da cui si sente schiacciato, cosicché reagisce in modo sbrigativo e convulso. Lo ha fatto capire lo stesso Becciu nella sua conferenza stampa, dicendo: “l’ho trovato in difficoltà, ho visto che soffriva”.

Matteo Matzuzzi, vaticanista del “Foglio”, ha fatto un affresco drammatico: “Il declinante pontificato bergogliano sta assumendo i tratti della più cupa tragedia shakespeariana… siamo alla nemesi del pontificato: dopo aver eliminato senza troppi complimenti gli oppositori dottrinari, magari leali, ma non troppo in linea” con la sua rivoluzione e “averli sostituiti con fidatissimi uomini d’apparato con poco odore di pecora e lunghe carriere tra gli uffici della curia, la mannaia è andata ora a colpire proprio questi ultimi”.

Il dramma è solo agli inizi, perché non si può pensare di riportare nel silenzio una vicenda così clamorosa senza chiarire tutte le responsabilità. Ma ora l’enormità del problema economico incombe sul papa anche da altri lati. Il 30 settembre – proprio mentre il segretario di Stato americano Mike Pompeo è a Roma per lo scottante problema dei rapporti Vaticano/Cina – inizierà pure l’ispezione del Comitato Moneyval del Consiglio d’Europa, che deve decidere sulla permanenza del Vaticano nell’elenco dei Paesi virtuosi per gestione dei bilanci, lotta a corruzione e riciclaggio.

Inoltre c’è un altro macigno: il crollo delle offerte dei fedeli. Il Vaticano teme che anche casi finanziari come quello in corso alimentino la forte sfiducia dei credenti che negli ultimi anni hanno già tagliato le offerte dell’8 per mille, dell’Obolo di San Pietro e delle altre donazioni: basti dire che l’Obolo di San Pietro è passato dai 101 milioni del 2006 ai 70 del 2015. Ormai i giornali agitano apertamente lo spettro del default vaticano, che sarebbe davvero un dramma singolare considerato che fin dall’inizio papa Bergoglio ha affermato di sognare una Chiesa povera.

Adesso forse si capirà che l’ideale della povertà, dell’austerità della vita, dovrebbe essere semmai delle persone (dai semplici cristiani agli alti prelati), ma la Chiesa in quanto tale ha bisogno di grandi mezzi economici per le sue missioni, per le sue opere educative, caritatevoli e assistenziali, per sacerdoti e religiosi, per la sua presenza ai quattro angoli del globo.

E’ possibile un ripensamento del papa su molte sue parole d’ordine “rivoluzionarie” di questi sette anni? Vedremo. La Chiesa è nella tempesta e c’è chi ha notato che negli ultimi tempi sono arrivati segnali che farebbero pensare a un papa Bergoglio preoccupato della confusione in cui si trovano i fedeli dopo questi anni “rivoluzionari”.

Per esempio il suo stop all’ordinazione di uomini sposati o certe recenti prese di posizione sul fine vita e sull’aborto o il recente “no” vaticano all’intercomunione con i protestanti.

Sono segnali che potrebbero far pensare a una correzione in corso del pontificato (gradita, per esempio, alla Chiesa americana). Ma anche segnali che aumenteranno l’irritazione (già palese nei mesi scorsi) dei settori cattoprogressisti (specie tedeschi). Su queste prese di posizione il papa sa di avere, anche da noi, l’appoggio di quella Chiesa fedele che non ha dimenticato Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e che in questi anni è stata relegata ai margini. Quello è il popolo cristiano che resta sempre fedele.

Antonio Socci

Da “Libero”, 27 settembre 2020

 

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Gli USA cercano di spiegare al Vaticano che deve difendere i Cristiani Perseguitati dal regime comunista cinese e non rinnovare un accordo insensato con i tiranni di Pechino

Gli USA cercano di spiegare al Vaticano che deve difendere i Cristiani Perseguitati dal regime comunista cinese e non rinnovare un accordo insensato con i tiranni di Pechino

Mancano pochi giorni alla visita di Mike Pompeo in Vaticano, prevista per il 29 settembre, ma il Segretario di Stato americano ha già lanciato un avvertimento molto chiaro dalla prestigiosa rivista “First Things”.

Già nelle precedenti visite aveva spiegato al cardinale Parolin e a papa Bergoglio quanto era sbagliato l’accordo sottoscritto dalla Santa Sede col regime comunista di Pechino, perché danneggiava i cristiani cinesi e legittimava nel mondo una tirannia molto pericolosa (il Covid-19 è l’ennesimo esempio della sua perniciosità globale).

Ora quell’accordo provvisorio di due anni fa (rimasto peraltro segreto nei suoi contenuti) arriva a scadenza e il Vaticano è deciso a rinnovarlo nonostante il bilancio fallimentare di questi due anni.

Così il Segretario di Stato di Trump preme sul Vaticano perché si fermi e non rinnovi un così nefasto accordo. Su “First Things” spiega che, negli ultimi tempi, la situazione dei diritti umani in Cina è diventata ancora più grave soprattutto per i credenti.

Pompeo ricorda la recrudescenza della persecuzione contro i cristiani, come contro buddisti tibetani e devoti di Falun Gong; menziona la pesantissima repressione contro i musulmani dello Xinjiang, infine  denuncia la “campagna di ‘sinizzazione’ per subordinare Dio al Partito comunista promuovendo lo stesso Xi come una divinità ultramondana. Ora più che mai” scrive Pompeo “il popolo cinese ha bisogno della testimonianza morale e dell’autorità del Vaticano a sostegno dei credenti”.

Infatti due anni dopo l’accordo sino-vaticano, per i cristiani le persecuzioni sono addirittura peggiorate, mentre, afferma Pompeo, il Vaticano “ha legittimato” i vescovi nominati dal regime. Quale convenienza ha dunque la Chiesa a rinnovare l’accordo?

Il Vaticano peraltro sta pure perdendo la sua autorevolezza morale. Infatti durante la brutale repressione comunista a Hong Kong dei mesi scorsi, la Santa Sede non ha speso nemmeno una parola (nonostante gli appelli dei cristiani della città e del card. Zen). Eppure “le voci più importanti di Hong Kong in difesa della dignità umana e dei diritti umani” scrive Pompeo “sono spesso voci cattoliche”.

Il Segretario di Stato Usa ricorda l’appello, dell’anno scorso, di 22 paesi alle Nazioni Unite per denunciare la detenzione, da parte del regime comunista, di “oltre un milione di musulmani uiguri, kazaki e altre minoranze nei cosiddetti campi di ‘rieducazione’ nello Xinjiang”.

Inoltre cita l’Alleanza Interparlamentare, composta da rappresentanti delle democrazie di tutto il mondo, che “ha condannato le atrocità” perpetrate dal comunismo cinese.

Pompeo rivendica i meriti dell’amministrazione Trump in questo campo: “Il Dipartimento di Stato è una voce forte in difesa della libertà religiosa in Cina e nel mondo e ha preso provvedimenti contro chi commette abusi sui credenti. Continueremo a farlo”.

Ma il Segretario di Stato USA dice anche alla Santa Sede che essa soprattutto ha “la capacità e il dovere” di richiamare l’attenzione del mondo “sulle violazioni dei diritti umani, in particolare quelle perpetrate da regimi totalitari come la Cina”.

Pompeo ricorda Giovanni Paolo II: “alla fine del XX secolo, la forza della testimonianza morale della Chiesa ha contribuito a ispirare coloro che hanno liberato l’Europa centrale e orientale dal comunismo e coloro che hanno sfidato i regimi autocratici e autoritari dell’America Latina e dell’Asia orientale”.

Oggi “la stessa testimonianza morale dovrebbe esprimersi nei confronti del Partito Comunista Cinese”.

Infatti il Concilio Vaticano II e i papi hanno sempre “insegnato che la libertà religiosa è il primo dei diritti civili” e che “la solidarietà è uno dei quattro principi fondamentali della dottrina sociale cattolica”. Oggi questo insegnamento della Chiesa dovrebbe essere proclamato “di fronte agli sforzi incessanti del Pcc per piegare tutte le comunità religiose alla volontà del Partito e al suo programma totalitario”.

E’ una responsabilità che il Vaticano ha verso tutta l’umanità: “Se il Pcc riuscirà a mettere in ginocchio la Chiesa cattolica e altre comunità religiose” scrive Pompeo “i regimi che disprezzano i diritti umani saranno incoraggiati e il costo della resistenza alla tirannia aumenterà per tutti i coraggiosi credenti che onorano Dio al di sopra dell’autocrate del giorno”.

La conclusione di Pompeo è drammatica: “Prego che, nei rapporti con il Pcc, la Santa Sede e tutti coloro che credono… prestino ascolto alle parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: ‘La verità vi renderà liberi’“.

Anche 80 Ong per la difesa dei diritti umani in Cina hanno scritto al Papa chiedendogli di riflettere su quell’accordo. E’ una situazione di una gravità senza precedenti e segna una terribile svolta storica: nel confronto planetario sempre più aspro fra Occidente libero e Cina comunista, il Vaticano rischia di schierarsi di fatto con l’impero comunista, proprio mentre intensifica la repressione religiosa.

Così il Vaticano si separa dall’Occidente libero, ma soprattutto dai cristiani perseguitati.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 21 settembre 2020

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L’estate delle stelle cadenti.

L’estate delle stelle cadenti.

Ci sarebbero tutti gli ingredienti della solita estate italiana: gli amorazzi da rotocalco, il tragico giallo dell’estate, il caldo e ora le stelle cadenti di S. Lorenzo. Solo che l’estate 2020 è diversa, è vuota di turisti stranieri e piena di problemi e di ansie.

Le stelle cadenti non sono solo quelle di san Lorenzo. Nel mondo, come in Italia, è una vera pioggia di stelle, preannuncio di un autunno catastrofico.

Sembrano cadenti perfino le stelle della bandiera americana nella campagna presidenziale più drammatica della storia recente, fra i danni umani ed economici del Covid e la piazza sobillata da chi vuole alimentare l’incendio; con il presidente Trump che si scambia con gli avversari addirittura l’accusa di voler mettere in discussione il sistema democratico.

Stella cadente è pure quella della bandiera della Cina comunista, isolata dal Covid, dallo scontro commerciale e politico con gli Stati Uniti e per la sua “occupazione” illiberale di Hong Kong. Ma isolata anche dalla cintura di sicurezza marittima che India, Australia e Giappone le stanno stringendo attorno con l’aiuto degli Usa.

Stelle cadenti poi sono quelle della bandiera Ue che ha perso una stella di primissima grandezza (economica e politica) come il Regno Unito e che ha rattoppato provvisoriamente il crollo economico dovuto al Covid, ma non usando la Bce, bensì con il bilancio dell’Unione per tenere sotto tiro l’Italia e impedirle di andarsene. Cosicché ora è stata innescata la bomba a orologeria dei debiti pubblici e, non avendo tolto di mezzo il “Fiscal compact”, a breve si riproporranno tragici scenari greci: anzitutto per l’Italia.

La stella per noi più importante, quella che viene rappresentata nel simbolo ufficiale della Repubblica italiana, è anche la più cadente. Già ultima nella graduatoria delle economie europee in questi vent’anni di euro, che ci ha stremato, l’Italia ha pagato e paga anche la crisi del Covid più pesantemente degli altri, sia in vite umane, sia in costi economici.

Sebbene Giuseppe Conte si sia molto affidato allo “stellone” portafortuna (e, in effetti, come premier appare più fortunato che capace) il suo governo e la sua leadership sono in caduta libera su tutti i fronti.

Il presidente del Consiglio è alle prese con la grana dei verbali del Cts, che rimettono in discussione la sua controversa gestione dell’emergenza; è alle prese con la pessima gestione dei migranti che s’intreccia con i rischi del Covid; è alle prese con i mal di pancia del Pd (che vanno dal desiderato rimpasto ministeriale, con ridimensionamento del premier, al problema del referendum sul taglio dei parlamentari); è alle prese con il problema del Mes e con le divisioni dei Cinquestelle, che sono le stelle più cadenti di tutte, unite solo dalla ferrea volontà di tenersi stretto il mandato parlamentare.

Infine Conte ha sulla testa la spada di Damocle delle elezioni regionali che, con un ennesimo successo del centrodestra, potrebbero decretare la fine del suo esecutivo. In effetti, in tutta questa nebbiosa incertezza, la sola cosa salutare, capace di purificare l’aria dai miasmi e ridare una guida vigorosa al Paese, sarebbe il voto. Ma faranno di tutto per evitarlo perché professano la religione del potere e della poltrona.

Allora resta il voto parziale delle regionali che sarà anche un referendum per dare all’Italia un governo davvero rappresentativo del Paese, un governo più efficace e capace di visione.

Ce n’è un bisogno estremo per risollevarsi dal baratro in cui siamo precipitati prima con l’euro e poi con il Covid. Anche perché proprio il Covid ha avviato la deglobalizzazione che contiene una chance: il ritorno a casa delle imprese prima delocalizzate.

Un gruppo di economisti ha valutato che negli ultimi tempi sono già 175 le decisioni di “reshoring” relative all’Italia (sono 163 in Francia, 120 nel Regno Unito, 93 in Germania e 58 in Spagna).

Ma cosa trovano qua le aziende che tornano? Se resta l’Italia della Sinistra, con la pressione fiscale soffocante, la burocrazia paralizzante, le infrastrutture fatiscenti e l’inefficienza giudiziaria sarà una catastrofe. Andiamo definitivamente dalle stelle alle stalle.

Non può essere questo governo a preparare il terreno per un nuovo “miracolo economico”.

Antonio Socci

Da “Libero”, 10 agosto 2020

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Governo e mondo Clericale cancellano Dio (perfino nei Documenti Vaticani) col pretesto del Covid.

Governo e mondo Clericale cancellano Dio (perfino nei Documenti Vaticani) col pretesto del Covid.

C’è una vittima illustre del Covid, la più illustre, eppure è passata inosservata: Dio. Non poteva esser “fatto fuori” dal Covid, ma è stato cancellato dagli uomini a motivo (o con il pretesto) del Covid. Non si tratta solo di ciò che è avvenuto nei mesi del lockdown – una sorta di blackout della Chiesa – che è stato clamoroso e non ha precedenti in duemila anni di storia.

La cancellazione di Dio è stata anche più radicale. Fa discutere in questi giorni la “Pontificia Accademia per la vita”, al cui vertice papa Bergoglio ha voluto mons. Vincenzo Paglia, della Comunità di S. Egidio.

L’Accademia ha appena emanato un documento dal titolo altisonante, “L’Humana communitas nell’era della pandemia: riflessioni inattuali sulla rinascita della vita”. Un testo di 29.128 caratteri dove non si trovano mai (proprio mai) le parole Dio, Gesù Cristo, fede e religione. C’è cinque volte la parola “salute”, ma non c’è mai la parola “salvezza”.

Come ha rilevato Stefano Fontana“non dice niente di cattolico, vale a dire di ispirato alla Rivelazione di Nostro Signore. In tutto il documento non si fa mai alcun riferimento né esplicito né implicito a Dio”.

Eliminato Dio da questa riflessione clericale sul Covid, è però impossibile eliminarlo dalla vita degli uomini, perché lascia un vuoto infinito. Allora il rischio è che lo si sostituisca con la Natura (scritta rigorosamente con la N maiuscola come si addice alla divinità). E’ un po’ la nuova religione ecologista che ha Greta Thunberg come profetessa.

Lo fa pensare un recente intervento di due cardinali molto importanti in questo pontificato, Walter Kasper e Francesco Coccopalmerio.

I due prelati, nella prefazione al libro “Una nuova innocenza” scrivono che “la pandemia ha voluto essere una sorta di immenso campanello di allarme per ricordarci, in sostanza, che il mondo è gravemente malato e che così non può durare; e che, se non cambiamo atteggiamento e visione, altri e più catastrofici cataclismi si abbatteranno su di noi sotto la regia di una Natura sconvolta in primo luogo dal cambiamento climatico. Perché l’origine prima del contagio universale del Covid-19 sta proprio nell’attacco alla Natura”.

Anche “Avvenire” pubblica il testo ribadendo che “la prima origine del contagio universale del Covid-19 sta nell’attacco alla Madre Terra”. E’ assurdo. Tutti sanno che le epidemie ci sono sempre state, dall’età della pietra, e anzi erano molto più virulente proprio perché l’uomo era totalmente in balia della natura, la quale non è affatto idilliaca, ma spietata.

E’ proprio grazie all’aumento del potere umano sulla natura, tramite la scienza e la tecnologia, che le pandemie sono state in gran parte sconfitte. Il Covid-19 non c’entra nulla con “l’attacco alla Natura” da parte dell’uomo, tanto meno col cambiamento climatico (fra l’altro il virus sembra essere indebolito proprio dalle alte temperature).

A meno che non si voglia dire che il virus è stato fabbricato dall’uomo, ovvero dai cinesi nel laboratorio di Wuhan, come ipotizza il professor Joseph Tritto nel libro “Cina-Covid19”, ma questa non è certo la posizione del Vaticano che con la Cina va d’amore e d’accordo e mai direbbe una cosa simile.

Se dunque il Covid-19 è “naturale” che colpa ha l’uomo? E perché dovrebbe essere punito?  Il pensiero implicito di questi ecclesiastici “progressisti” è la vecchia idea di un “dio vendicativo” che torna con un nome diverso: la Natura. La quale punisce l’uomo per i suoi presunti peccati contro la Natura stessa.

I due cardinali sostengono di riflettere la visione di papa Bergoglio espressa nel titolo della “Stampa” del 22 aprile scorso, che ha così riassunto il suo discorso sul dramma del coronavirus: “Il Papa: abbiamo peccato contro la terra, la natura non perdona”.

Se dunque, nel pensiero ecclesiastico, c’è il rischio di sostituire Dio con la Natura, la concreta cancellazione di Dio dalla vita del popolo, nei mesi del lockdown, è un fatto. Proprio nei giorni in cui si poteva pensare che gli uomini avessero più bisogno di Lui, il governo e gli uomini di Chiesa hanno concordato la cancellazione delle messe e di tutti i riti religiosi per il popolo che è stato privato di tutti i sacramenti (perfino quello dei morenti).

Una cosa mai accaduta nella storia cristiana, perché finora per la Chiesa – come proclama il Codice di diritto canonico – “salus animarum suprema lex”, cioè: la salvezza delle anime è (sempre stata) la legge suprema.

Adesso sembra che alla salvezza dell’anima si sia sostituita la salute del corpo come valore supremo, cosicché si può rinunciare a Dio e ai sacramenti che non sono beni essenziali, anzi – è stato detto – rischiano di essere addirittura pericolosi perché andare in chiesa, confessarsi o ricevere la comunione, poteva (può) mettere a rischio la salute. Una nuova prospettiva del tutto immanentista.

Si poteva salvaguardare la salute senza veicolare il messaggio per cui, nei momenti più drammatici, è bene fare a meno di Dio e pensare solo alla salute del corpo affidandosi alla scienza e al governo? Certo che si poteva. Come si poteva e si doveva fare un lockdown diverso, nei tempi e nei modi, un lockdown che non annientasse tutte le attività umane, da quelle economiche a quelle spirituali.

Una delle conseguenze, per la Chiesa, è oggi la scarsa affluenza alle messe che sono riprese – diversamente dall’attività delle discoteche – con forti limitazioni di presenza. I fedeli si chiedono cosa fare di una Chiesa che parla come il ministero della sanità.

E nel mondo clericale fa scandalo Gesù Cristo che, pur essendo il più grande guaritore dei corpi, afferma che il bene supremo è la salvezza dell’anima e la vita eterna: “chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi perderà la sua vita per amor mio e del Vangelo, la salverà… che giova all’uomo conquistare il mondo intero se poi perde la sua anima?” (Mc 8, 35-36). E il Salmo 62 recita: “la Tua grazia vale più della vita”.

Sembra che nel mondo clericale non circoli molta speranza cristiana, ma ci si affidi semmai a Speranza, il ministro della sanità. Auguri.

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Antonio Socci

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Da “Libero”, 9 agosto 2020

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